Alla televisione sentirono il notiziario che parlava dei festeggiamenti dell’Unità d’Italia, che a Torino andavano in gran pompa. Immagini di gente ben vestita e divertita, di automobili nuove, di meraviglie della scienza e della tecnica moderne. A Carlo pareva un altro mondo, e anche Beppe commentò: «E io sono ancora qui a portare secchie di sabbia!» (pag. 30)
Un’altra estate, di Paolo Ferruccio Cuniberti, Edizioni Arianna 2020, pagg. 176
Il romanzo corale di Cuniberti si delinea come un quadro storico in cui, a partire dalle vicende particolari di due comunità, si profila un preciso momento della storia italiana: il passaggio da una società prevalentemente contadina agricola, ad una cittadina industriale. L’accento è posto, in particolare, sull’abbandono della campagna e delle dure condizioni di vita, a favore di una migrazione verso i centri urbani del nord, che negli anni dal dopoguerra, e in particolare negli anni Sessanta, vedevano crescere le attività industriali e ampliarsi i confini cittadini a favore di periferie sempre più affollate.
La narrazione si sviluppa su due assi geografici per mostrare due realtà contadine apparentemente diverse, che invece hanno molto in comune. Da un lato la vita contadina nelle Langhe del Piemonte, dall’altro quella della Sicilia all’ombra delle Madonie. Nonostante si trovino agli estremi opposti della penisola, le condizioni di vita, la povertà, la difficoltà a mettere insieme quanto necessario per garantire un minimo di vita sostenibile, sono esattamente le stesse.
Seguiamo le vicende di due nuclei familiari, i Bongiovanni in Piemonte e i Bastiani in Sicilia; due famiglie che si ergono a simbolo di tutta una civiltà e di un preciso momento storico, quello del dopoguerra quando le difficili condizioni economiche spingono molti contadini, soprattutto le nuove generazioni, a cercare una vita migliore nelle città, offrendosi come manodopera nelle fabbriche, nelle realtà industriali del nord Italia, ma anche all’estero, in Svizzera, Germania, se non di là dall’oceano.
Questo punto di avvio non poteva che trovarsi in quella civiltà contadina da cui tutti, bene o male, proveniamo e che si è frantumata con il dopoguerra e la grande industrializzazione del nostro paese. A quale prezzo è stato pagato il nostro attuale, precario, benessere? (nota autore pag 17)
Nasce dunque dall’esigenza di migliorare le condizioni di vita l’incontro tra queste due famiglie, che hanno come comune denominatore la fabbrica e l’avere dovuto lasciare alle spalle la propria terra e le proprie radici. Carlo, che a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola e a quindici se ne va a Torino a cercare lavoro, e Maria, anche lei quindici anni, e deve lasciare, insieme alla famiglia, la Sicilia, sono destinati a incontrarsi.
Il pensionato per operai, dove si era stabilito nel quartiere Lingotto da meno di un anno, era un porto di mare, vi proveniva gente di ogni parte d’Italia, tanti veneti e transfughi istriani, chiassosi ex mezzadri toscani, umbri e marchigiani, emigranti di ogni regione del Sud, anche di quelle che a volte ci si dimenticava di dire alla maestra quando studiava geografia a scuola, come la Basilicata o il Molise. Ognuno con la sua storia, le sue disavventure, la sua fame antica, il passato da lasciare alle spalle, un futuro fatto più di speranze che di certezze. Torino accoglieva masse di operai dallo spopolamento delle campagne, molti inghiottiti dalla grandi fabbriche dell’industria automobilistica, tanti altri in una miriade di stabilimenti più piccoli, collaterali, officine, botteghe specializzate. In una di queste era finito i primi tempi Carlo, ancora troppo piccolo per la Fiat. (pag. 101)
Siamo negli anni Sessanta, quelli del boom economico seguito alla ricostruzione del dopoguerra, quelli in cui il nord, che aveva già una identità e una vocazione industriale, diventa il motore produttivo del Paese e ha bisogno di manodopera. Manodopera da impiegare in tutto l’indotto che produce parti che, alla fine della catena, saranno destinate alla Fiat, “la fabbrica” per eccellenza, la realtà industriale su cui si fonda tutta l’economia della regione, e non solo. Carlo, abituato al lavoro della campagna che prevede di seguire un ciclo dall’inizio alla fine, resta spaesato di fronte al nuovo modo di lavorare in cui ognuno produce tanti pezzi tutti uguali di cui nemmeno conosce la destinazione e l’utilizzo. L’arrivo a Torino è però anche un momento di scoperta per lui che, la domenica pomeriggio – unico momento di libertà – può andare in giro ad esplorare la grande città, dal centro ai sobborghi di periferia, quelli popolari ma dove si mantiene uno stile di vita dignitoso e dove si sofferma a guardare le abitudini di vita delle persone, le ragazze che affollano allegre le vie, le famiglie con bambini al passeggio della domenica. Ma Carlo impara anche a conoscere i quartieri vecchi fatti di case fatiscenti, quelli dove sono costretti a vivere “i terroni”, in condizioni misere, e quelli fatti da casermoni di case popolari, tutte uguali nella loro grigia povertà. Ingaggiato per fare parte di una squadra di calcio di quartiere, Carlo inizia anche le sue prime amicizie.
Compiuti i diciannove anni, Carlo entra alla Fiat. Nell’autunno caldo del Sessantanove.
Il lavoro in catena di montaggio non era poi così diverso da quello della piccola officina specializzata in cui aveva cominciato. Imparò il lavoro da un anziano che gli spiegò tutto in mezza giornata. Montavano il paraurti anteriore della Cinquecento. Imbullonare, saldare. Imbullonare, saldare. Imbullonare, saldare. Tempi misurati. Ogni tanto veniva uno col camice bianco e un blocco per appunti che controllava. Guardava l’ora, contava i pezzi, decideva se la linea poteva correre di più, e via così per otto ore su tre turni. (pag. 111)
In fabbrica comincia a fare presa il sindacato, i sistemi e i tempi di lavoro cominciano ad essere criticati, la presa di coscienza dei lavoratori in merito alle condizioni di lavoro segna un punto di non ritorno nella lotta per i diritti.
Dall’altra parte vediamo la famiglia Bastiani, con al centro la figura di Maria; per lei l’arrivo a Torino ha assunto i toni della liberazione e dell’emancipazione da quella gabbia che era il paese in Sicilia e che, per certi aspetti, la insegue anche a Torino. In occasione del ritorno al paese in Sicilia, per il matrimonio del suo ex innamorato Nino, si rende conto di preferire di gran lunga la città del nord. Costretta a lavorare nel bar di un amico del padre, Maria dopo il lavoro si concede qualche giro per il quartiere ed è attraverso i suoi occhi che emergono i tratti di quei rioni che man mano hanno visto affiancarsi alla popolazione originaria di Torino, quella proveniente dalle varie regioni, del sud e dell’est dell’Italia. Quartieri che si chiamano barriera (periferia nord e sud) e che appunto già nel nome sembrano segnare un confine.
Il quartiere di barriera, come lo chiamavano i torinesi, era un microcosmo pieno di vita, di afflizioni e di speranze. La città che aveva accolto nel suo ventre i figli di tutta una nazione, era nutrice di progetti di nuove esistenze talvolta vincenti, a volte fallimentari. (pag. 117)
Seguendo la maturazione di Carlo e Maria, le loro esperienze nella società e nel lavoro, l’autore restituisce un quadro sociale della Torino di quegli anni, in cui tanti fattori si intrecciavano a definirne una nuova identità: l’alta borghesia industriale, la piccola borghesia autoctona, la classe operaia piemontese – generalmente più specializzata – da un lato, gli immigrati dall’altra, per lo più fagocitati dalle fabbriche, mentre alcuni avviavano attività commerciali in proprio. In mezzo, le tensioni sindacali, politiche, sociali. Ma il romanzo trova il suo sbocco attraverso i sentimenti reciproci che i due giovani, così diversi e al tempo stesso simili, nutrono e che li porteranno ad avvicinarsi. Sarà dall’incontro tra le due identità, nutrite dalla comune voglia di riscatto e di affermazione della propria unicità, che la Torino di allora – come tutte le città industriali della società occidentale – troverà una sintesi e un motore per il futuro. Resta il vuoto lasciato nelle campagne, nei lavori che si andranno sempre più a perdere, come un simbolo di una civiltà che è andata via via estinguendosi.
Carlo che ha lasciato un pezzo del suo cuore sulle colline dolci delle Langhe, e Maria che non vuole perdere i suoi sogni, che non vuole sentirsi incatenata, come la sua Ruby Tuesday, sono la nuova generazione che segna il passaggio del testimone.
Il libro è corredato da una interessante nota introduttiva a cura di Vincenzo Ognibene e una nota dell’autore. L’immagine di copertina riproduce un’opera di Vincenzo Ognibene, Trittico verticale del tramonto, 2009, tecnica mista su tavola
Di Cuniberti vi segnalo anche il bellissimo romanzo d’avventura Ultima Esperanza che trovate qui recensito.
questo mi era proprio sfuggito, ma credo valga la pena di farci un pensierino! sempre grazie!!
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Soprattutto se ti piace questo genere. È un romanzo molto accurato nella ricostruzione degli ambienti, delle consuetudini. Inoltre rende molto bene quel preciso momento storico, con le sue inquietudini e con un senso di perdita.
Buona giornata 🤗
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Lo immaginavo! Grazieee
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non conosco questo autore, la tua segnalazione, accurata come sempre, mi intriga per tema e vicende.
ml
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Lo avevo conosciuto leggendo il suo romanzo storico Última Esperanza e mi aveva colpito per l’accurata ricostruzione e indagine storica, per l’attenzione ai dettagli. E devo dire che in questo nuovo romanzo ho trovato la stessa cura.
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