Dan si chiedeva ancora perché avesse detto di sì. Soldi facili, forse. Ma più che altro la mancanza assoluta di direzione nella sua vita. (..) La sensazione non tanto di essere bloccato sempre nello stesso punto quanto di ruotare costantemente su se stesso. (..) Un foglio su cui mettere il suo nome, e che potesse lanciare la sua vita in una direzione nuova. Era stanco di vivere come Ceneraccio, di fare piccole, continue deviazioni per poi ricomparire con qualcosa che agli altri pareva del tutto inutile. Sì, solo che la vita di Dan Kaspersen non era fatta d’altro che di deviazioni. (pag. 73)

Il lungo inverno di Dan Kaspersen, di Levi Henriksen, Iperborea 2020, traduzione di Andrea Berardini, pagg. 340, copertina di Ryo Takemasa, la mia recensione

INCIPIT

Dan Kaspersen abbandonò la funzione quando «Dove le rose non muoiono mai» non era nemmeno a metà. Nell’aria c’era odore di neve. Sulla fortezza si addensavano le nubi. Appena fuori dalla chiesa, qualcuno aveva infilato una rosa nella neve accanto a una lapide. Ripensò a com’era un tempo quel cimitero, la vigilia di Natale di una volta. La vertigine delle notti stellate, le luci che sfidavano lo sguardo morto di Dio, lassù in quel buio sconfinato. Per un istante rivide Jakob: la fiammella tremolante gli faceva il volto bianco come quello di un angelo, quando si chinò per infilare le due candele nel ramo d’abete sulla tomba dei genitori. Si passò veloce il dorso della mano sugli occhi. Era come se l’arto che spuntava dalla manica del cappotto, rigida e rimboccata, non gli appartenesse.Da un pezzo non aveva le mani così bianche, così morbide. Gli ci sarebbe voluto del tempo per abituarsi a tanta luce in caduta libera. Attraversò il parcheggio con gli occhi stretti in due fessure piccolissime, ma riuscì senza difficoltà a trovare la vecchia Volvo Amazon del padre. Lungo il muro della chiesa era parcheggiata appena qualche macchina, e comunque di station wagon come la sua, di quel blu scuro, non se ne vedevano più molte in giro. Nemmeno in una cittadina come Kongsvinger, dove lo spiazzo della stazione era pieno di ragazzotti di campagna che veneravano l’asfalto come il loro Dio.

Norvegia fattoria