Era stata sospinta nella fattoria di Ida Eckhoff come una naufraga su un’isola poco prima di annegare. Attorno a lei c’era ancora il mare, e Vera aveva paura di quell’acqua. E così era dovuta restare sulla sua isola, in quella fattoria, dove non aveva potuto metter radici, ma era ugualmente cresciuta attaccata a quelle pietre, come un lichene o un muschio. Non attecchire, non fiorire, solo restare. E non permetteva che nessuno dubitasse che sarebbe rimasta. (pag. 39)
Il paese dei ciliegi, di Dörte Hansen, Salani editore 2015, traduzione di Umberto Gandini, pagg. 280, la mia recensione

Si domandava come si diventasse così. Che fosse il paesaggio a renderli tali? Della circostanza che la terra su cui vivevano non l’avevano trovata bell’e pronta, ma l’avevano fatta? Forse era qualcosa che si ereditava quando capitava di essere messi al mondo in una di quelle famiglie insediate nei terreni alluvionali, quando fin dagli inizi si era parte di una costruzione a graticcio. Si aveva consapevolezza del proprio ruolo e del proprio rango in quel paesaggio, secondo una graduatoria dettata dall’età (..) Tutto quello che era venuto dopo – gli sloggiati dalle bombe, i profughi scacciati dai loro paesi, gli stanchi delle metropoli, gli esuli e i cercatori di una patria – era solo sabbia trasportata dal vento. (..) Popolo in movimento destinato a rimanere nelle strade. (pag. 163)

INCIPIT
Certe notti, quando il vento soffiava da Occidente, la casa gemeva come una nave sballottata in alto mare. Le folate si accanivano sugli antichi muri urlando. Così gridano le streghe quando bruciano, pensò Vera, o i bambini quando si schiacciano le dita. La casa gemeva ma non sarebbe affondata. L’ispido tetto era ancora saldamente piantato sulle travi. Nell’intreccio di canne proliferavano nidi verdi di muschio, solo al colmo si era insaccato. Il colore si era sfaldato dal graticcio della facciata e le travi rozze di quercia stavano conficcate nelle pareti come ossa grigie. L’iscrizione sul frontone era rovinata dalle intemperie, ma Vera sapeva che cosa diceva: QUESTA CASA È MIA EPPUR NON MIA, SUA LA DIRÀ ANCHE CHI DOPO DI ME VERRÀ. Era la prima frase nella lingua del posto che aveva imparato quando, tenuta per mano da sua madre, era arrivata in quella fattoria di Altes Land. La seconda era stata pronunciata da Ida Eckhoff in persona ed era stata un’eloquente introduzione agli anni insieme che ancora le attendevano: «Quanti ancora ne verranno di voi polacchi?» La sua casa era piena di profughi, ne aveva abbastanza.
Hildegard von Kamcke non aveva talento per il ruolo della vittima. A testa alta (oltre che infestata dai pidocchi) e con trecento anni di albero genealogico prussiano orientale sulle spalle era entrata nella camera gelida della servitù accanto all’ingresso, assegnata loro come alloggio da Ida Eckhoff. Aveva adagiato la bambina sul materasso di paglia, si era sbarazzata dello zaino e aveva dichiarato guerra a Ida con voce pacata e la corretta impostazione d’una cantante: «Mia figlia avrebbe bisogno di qualcosa da mangiare, per favore». E Ida Eckhoff, contadina di Altes Land da sei generazioni, vedova e madre di un combattente ferito, aveva subito risposto al fuoco: «Da me non l’avrete!»