Si domandava come si diventasse così. Che fosse il paesaggio a renderli tali? Della circostanza che la terra su cui vivevano non l’avevano trovata bell’e pronta, ma l’avevano fatta? Forse era qualcosa che si ereditava quando capitava di essere messi al mondo in una di quelle famiglie insediate nei terreni alluvionali, quando fin dagli inizi si era parte di una costruzione a graticcio. Si aveva consapevolezza del proprio ruolo e del proprio rango in quel paesaggio, secondo una graduatoria dettata dall’età (..) Tutto quello che era venuto dopo – gli sloggiati dalle bombe, i profughi scacciati dai loro paesi, gli stanchi delle metropoli, gli esuli e i cercatori di una patria – era solo sabbia trasportata dal vento. (..) Popolo in movimento destinato a rimanere nelle strade. (pag. 163)
Il paese dei ciliegi, di Dörte Hansen, Salani editore 2015, traduzione di Umberto Gandini, pagg. 280
Questo che è stato il romanzo di esordio di Hansen – e che è volato in altro nelle classifiche di vendita, divenendo un caso letterario in Germania – racconta la storia di persone che vivono in quelle venerabili, scricchiolanti e muschiose case con i tetti di paglia nell’Altes Land – siamo nella Germania del nord, vicino ad Amburgo, una regione frutticola ricca di ciliegi e meli -, campagna che gli amburghesi attraversano in bicicletta durante i viaggi fuori città nel weekend per immergersi nella natura, mentre intere generazioni di contadini vivono lì da sempre e molti di loro vorrebbero andarsene. E già qui intuiamo il gap di prospettiva tra due mondi distanti.
Ma entriamo nella trama dalla porta principale…
La contessa Hildegard von Kamcke, nell’inverno del 1945, prima che i russi invadano la Polonia, mentre interi villaggi sono già in fiamme, deve abbandonare la sua prestigiosa tenuta in Masuria, insieme ai due figli di cinque e un anno. In uno degli inverni più freddi di sempre, fuggiti con poche cose, i tre sono vittime del destino che ha falciato tante vite. Il piccolo non sopravvive ai meno venti gradi, muore congelato lungo la strada. L’immagine della carrozzina lasciata col bambino morto, avvolto nelle sue coperte, e l’idea che sarebbe affondata in mare aperto nel disgelo della primavera è una di quelle tare che madre e figlia non potranno dimenticare per il resto della vita.
Hildegard, portamento altezzoso nonostante le circostanze, e sua figlia Vera arrivano in una fattoria dell’Altes Land, a nord-ovest di Amburgo, a sud dell’Elba. Non sono le benvenute perché la casa è già piena; la padrona di casa, Ida Eckhoff, contadina di sesta generazione, governa la casa e le nuove arrivate con severità e freddezza. Si capisce subito che tra loro sarà guerra aperta. Sono due donne orgogliose, dal carattere deciso, due lavoratrici instancabili, perché Hildegard ha ricevuto un’educazione prussiana in cui, indipendentemente dal rango di nascita, non è previsto l’ozio. Dunque inizia la difficile convivenza tra la nobildonna prussiana e la contadina tedesca, fatta di scaramucce e dispetti, per due anni, fino al ritorno a casa di Karl, il figlio di Ida. Otto anni prima suo marito era annegato nel canale di scolo, e a lei era toccato prendere le redini della fattoria, anche perché il suo unico figlio era stato strappato alla famiglia dalla guerra. Al ritorno non è più lo stesso: ha una gamba rigida e il sistema nervoso a pezzi. Di notte le scene della guerra lo assediano, le sue urla disperate risuonano in tutta la casa.
Karl si affeziona alla piccola Vera, una ragazzina che appare subito energica e decisa, perfettamente a suo agio tra i filari di ciliegi, anche nella calura estiva quando con una pentola e un mestolo, si aggira facendo baccano per scacciare gli uccelli che mangiano le ciliegie mature. Vera riesce anche a stabilire un rapporto con Ida, ma di nascosto alla madre.
La convivenza diventa impossibile quando Hildegard sposa Karl, e Ida diviene la regina deposta della casa. “Due donne, un focolare: non era mai finita bene”, e difatti l’epilogo non è positivo. Ma Hildegard ha altre ambizioni e un bel giorno pianta figlia e marito e se ne va ad Amburgo, in compagnia di un benestante nuovo marito, un ricco architetto – “non di classe, non proprio comme il faut , ma quasi” da cui avrà una figlia, Marlene, e una vita agiata.
Tutto questo ve lo racconto perché sostanzialmente è la premessa che si costruisce nei primi brevi capitoli, e che poi verrà man mano ripresa con dei flash-back, durante lo svolgersi della trama; il romanzo prende avvio da qui per mettere al centro le tre donne: Vera, Marlene e sua figlia Anne, sulle quali continueranno a volare come delle nubi nere e cariche di elettricità le due nonne, Ida e Hildegard. Capitoli che spiccano per la bravura dell’autrice che racconta in modo secco, con una prosa disadorna ma accurata, tenuta frizzante dall’umorismo e l’ironia amara che si nascondono sotto la superficie.
Era stata sospinta nella fattoria di Ida Eckhoff come una naufraga su un’isola poco prima di annegare. Attorno a lei c’era ancora il mare, e Vera aveva paura di quell’acqua. E così era dovuta restare sulla sua isola, in quella fattoria, dove non aveva potuto metter radici, ma era ugualmente cresciuta attaccata a quelle pietre, come un lichene o un muschio. Non attecchire, non fiorire, solo restare. E non permetteva che nessuno dubitasse che sarebbe rimasta. (pag. 39)
E Vera rimane, seppure incapace di mettere radici. Non trova mai un partner che vada bene. Se ne va in città a studiare odontoiatria, torna al paese dove il padre adottivo Karl le apre uno studio e rimane con lui a vivere nella fattoria, a prendersi cura di lui, dei suoi fantasmi, fino alla sua morte. Nel villaggio, nonostante le sue stranezze, è tollerata e rispettata, ma le rimane addosso quell’etichetta di rifugiata che l’ha condotta fin lì tanto tempo prima.
Non sembrava possedere la sua casa, semmai era l’esatto contrario. Vera apparteneva a quella casa. (pag. 160)
La figlia di Marlene, Anne (nipote di Ildegard e nipote di Vera) è la protagonista della seconda parte principale della trama, che si svolge ai nostri giorni e colpisce nuove note sorprendenti. Sebbene Anne porti dentro di sé l’amore di sua nonna per la musica, il suo talento mediocre non le dà la possibilità di soddisfare le alte aspettative della sua ambiziosa madre. Interrompe gli studi musicali, ma torna alla musica dopo un periodo di apprendistato come falegname in cui si lega con una amicizia sincera a Carsten. Purtroppo è sufficiente solo per un lavoro impopolare presso la scuola privata di musica per bambini. In questi capitoli c’è molta satira e tirate d’orecchi alla società culturalmente elevata ed economicamente benestante di Amburgo (in generale, delle città) per i principi educativi con cui crescono i figli, costretti a diventare dei geni, dei fenomeni della musica fin dai tre anni; anziché lasciare che la musica sia un gioco, le aspettative di eccezionalità spingono i genitori a comportamenti ridicoli, e ovviamente dannosi per i piccoli aspiranti musicisti.
(Amburgo, Ottensen mercatini di Natale; foto by Thomas Panzau)
Il mondo di Anne è scosso quando scopre che suo marito – uno scrittore affermato – la tradisce con la graziosa lettrice con le unghie dei piedi rosso sangue e lunghi capelli neri. Christoph confessa di amare Carola e Anne rimane sbalordita da questa rivelazione che le piomba addosso. A questo punto vuole solo andarsene. Via da Amburgo, da Ottensen, il quartiere alla moda dove non si è mai ambientata, dove non è mai riuscita a intessere relazioni nemmeno con le altre mamme – nevrotiche e radical chic – che incontra al parchetto, mentre i bambini giocano. Mette in valigia le sue cose, mette il suo figlioletto Leon su uno Sprinter e guida da sua zia Vera, alla fattoria in Altes Land.
Vera e Anne sono – ciascuna a suo modo e con storie diverse ma che derivano dalla stessa origine – due profughe: ciò che le accomuna è la loro mancanza di conformità, di adesione a ciò che dovrebbe essere il ruolo assegnato dalla società. La fuga di Anne in campagna si trasforma in una ricerca di una vita autodeterminata, esattamente come è stata la vita della zia Vera. Poi il tempo ha fatto la sua parte, di anno in anno, Vera è diventata più monosillabica e più solitaria, isolandosi nella vecchia casa colonica, dove gli spifferi hanno il sopravvento e la vernice cade dalla facciata. Anne, dal canto suo, non riesce ad uniformarsi, a omologare il suo carattere ai dettami del “politically correct”, di quel modo “civile e urbano”, da persone mature e consapevoli, di comportarsi che va per la maggiore nel suo quartiere evoluto.
Anne cerca rifugio da Vera, offrendole in cambio le sue competenze di falegnameria per ristrutturare porte e finestre, e rimettere in sesto la casa. In realtà Vera non vorrebbe fare alcun cambiamento, vorrebbe che tutto fosse lasciato com’è, ma l’ingresso nella sua vita di Anne e del piccolo Leon sono forse ciò di cui, in questa fase della sua vita, aveva bisogno, anche se ciò innesca un altro motivo di frizione con la sorella Marlene.
Nei capitoli in cui vediamo Anne in Altes Land, Hansen – non senza un certo sarcasmo – ci mette di fronte a un confronto: città vs campagna. Ecco allora che vediamo da una parte la vita difficile e non certo idilliaca dei contadini, anche la loro disperazione: inverni rigidi, duro lavoro e guadagni risicati. Stanno lottando per garantire reddito e redditività nelle loro fattorie in una scena industriale biologica concorrenziale e difficile. Dirk zum Felde, un agricoltore qualificato, è uno di loro. Sul suo trattore guida amaramente in mezzo al “museo a cielo aperto” che lo circonda e spolvera “il brutto veleno sui poveri, poveri alberi” (gli antiparassitari chimici). È “stufo” dei “cercatori di significato” e degli “eco-missionari” che lo disprezzano come un “bastardo contadino”. Perché, in quegli stessi luoghi, è arrivato il tempo del contro-esodo, dei tentativi di abbandonare la vita frenetica delle città, e di ripararsi nell’idealizzata campagna, in nome di una fantomatica decrescita felice che presto, però, deve scontrarsi con quella che è la realtà. Hansen accorpa tutto questo nel personaggio dello scrittore-giornalista Burkhard Weisswerth che si è trasferito con la moglie Eva, e mentre lui scrive improbabili articoli sulla vita in campagna, lei si ammazza a produrre gelatine biologiche. Messo da parte l’entusiasmo iniziale, provati dai deprimenti mesi invernali, non sono poi più tanto sicuri di avere fatto la scelta giusta…
Hansen brilla quando descrive la campagna di Altes Land – che lei conosce bene – la rende cosa vera, così come riesce a dare un’idea precisa ed onesta della vita che fanno i contadini, o almeno quei pochi rimasti, perché le nuove generazioni sembrano poco propense a portare avanti le fattorie dei padri e dei nonni. Anche il ricorso al basso tedesco, parlato dai contadini, contrapposto all’alto tedesco parlato in città, produce, nel testo originale, il confronto tra due realtà molto diverse tra loro.
Il linguaggio narrativo di Dörte Hansen è visivamente potente e accurato, cosa che probabilmente deve al suo background giornalistico. La vita di campagna non è trasfigurata, non c’è falsa romanticizzazione. Con uno sguardo un po’ scattante e beffardo, guarda la vita in campagna, con amore e in modo critico.
Il lungo arco narrativo di oltre sette decenni è raccontato con salti tra i livelli temporali, flashback e molti episodi critici; alla fine emerge tutto il quadro della storia familiare e della trasformazione del vecchio paese. L’iscrizione sul frontone della casa degli Eckhoff del XVIII secolo si erge come un leitmotiv: “Questa casa è mia eppur non mia, sua la dirà anche chi dopo di me verrà“. Il cerchio si chiude quando Marlene viene attratta dalle sue radici. Insieme a sua figlia Anne, si reca in Masuria per scoprire cosa può essere rimasto dell’orgogliosa tenuta di von Kamcke.
Dörte Hansen, senza mai abbassare il livello stilistico, ci ricorda anche quanto sia stato difficile per gli sfollati arrivare dopo la seconda guerra mondiale: come hanno dovuto lottare contro il rifiuto nella loro nuova terra, quanto si erano persi e quali cicatrici rimanevano. “Il paese dei ciliegi” racconta storie di cadute, risalite e lotte.
(foto: Marco Polo TV)
Qui potete leggere l’incipit. Vi segnalo anche la mia recensione all’altro romanzo di Hansen, Tornare a casa.
Che belle immagini di serenità! 😀
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Una campagna coltivata con cura
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Di solito, quando leggo le tue recensioni, rimango colpita soprattutto dalle tue parole, dal modo in cui fai “vivere” i testi. Invece in questo caso anche le immagini mi hanno colpita al cuore: si fondono perfettamente con il testo e sono davvero incantevoli <3.
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Il romanzo mi ha molto ispirata…..
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molto interessante la vicenda narrata in questo romanzo, m’incuriosisce. E poi due recensioni entusiastiche (questa e quella di Tornare a casa) fanno di questa autrice quasi una certezza di bravura.
ml
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In effetti mi ha conquistata. Mi piace lo stile, mi piace questa ambientazione tra campagna e città, molto realistica e scevra da ipocrisia e romanticismo. Anche i personaggi sono ben definiti, li percepisco come reali, ne intuisco la personalità. E poi c’è questa vena ironica che sdrammatizza anche le situazioni più cupe. Va beh, si è capito…. Mi piace 😁
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