Louise Glück è stata insignita del Premio Nobel per la Letteratura, ma i suoi versi erano praticamente introvabili in edizioni italiane. Il Saggiatore, nello scorso novembre, ha posto rimedio a questa mancanza con due volumi:
Riporto la bio della poetessa e alcuni commenti usciti sulla stampa. Vi segnalo anche il post che Zapgina le ha dedicato sul suo blog Pensieri lib(e)ri.
Premio Nobel per la Letteratura 2020. Nata a New York nel 1943, Louise Glück è una poetessa statunitense. La sua poesia evoca schegge memoriali rielaborando temi come l’isolamento e la solitudine, in un tono insieme colloquiale e meditativo. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope all’interno di una scrittura molto moderna, che racconta di un matrimonio che sta per finire. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per “la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale“.
Nel 2020 per il Saggiatore vengono pubblicati: Averno e L’Iris Selvatico.
In Averno, Louise Glück canta la solitudine e il terrore per l’ignoto, lo splendore della notte e l’amore, il desiderio.
«Il mito è materia dei poeti, ma è materia ostica; maneggiandolo male si finisce facilmente col fare una poesia di maniera, banale e poco sentita. Nel caso di Averno, invece, abbiamo due archetipi – la terra e Persefone – che sostengono un’architettura sapiente e potentissima» – Marilena Renda, in Averno e la poesia perfetta di Louise Glück, premio Nobel per la Letteratura – RivistaStudio
«Basata sul mito di Persefone, la discesa agli inferi di Glück ricorre al recupero di un modello classico, motivo che torna nella sua scrittura fin dagli anni Settanta, per raccontare storie familiari e coniugali. Achille, Ulisse e Penelope, Didone e Enea, Orfeo e Euridice, e perfino Pia de’ Tolomei hanno via via offerto alla poetessa americana trame collaudate su cui innestare temi personali, una continua autoanalisi, il confronto con un amore finito, con la rottura del matrimonio, con il proprio Io lesionato» – Antonella Francini, in Louise Glück, versi per sola carne nel nome di dei immortali – il manifesto
È di nuovo inverno, è di nuovo freddo. Il lago Averno, dove gli antichi credevano si trovasse la porta dell’aldilà, è scuro come il cielo sopra le nostre teste. Ad aguzzare gli occhi, riusciamo appena a distinguere la migrazione notturna di uno stormo di uccelli. All’alba, le colline brillano di fuoco, ma non è più il sole di agosto: i nostri corpi non sono stati salvati, non sono sicuri. In Averno, Louise Glück canta la solitudine e il terrore per l’ignoto, lo splendore della notte e l’amore, il desiderio: perché, sembra dirci, anche quando tutto è muto e spento, capita a volte di sentire musica da una finestra aperta, in una mattina di neve, e allora il mondo ci richiama a sé, e la sua bellezza è un invito.
Vincitore del Premio Pulitzer per la poesia 1993
Nel New England di Louise Glück, l’estate è breve e ogni fiore ha la sua voce, dolce e discreta; la stessa della poetessa, che qui canta caducità ed eternità, bellezza e morte, cura e indifferenza.
«La poesia di Glück ha una vitalità tutta legata all’esperienza, personale e universale: miti, personaggi e topoi della cultura classica o biblica paiono illuminati da una luce soggettiva, e divengono veicolo per tonalità personalissime benché condivisibili. Una poesia assertiva, solida: come è solido e universale un mito di fronte al caos della vita» – Wired
«Nel giardino dell’iris selvatico la poetessa si aggira tra piante e fiori e le voci con cui interagisce sono svariate: l’effetto sorpresa è quello che Glück apprezza di più, “sentire sempre lo stesso suono di me stessa è una dannazione”, ha dichiarato. Ed ecco che le voci si alternano, la giardiniera-poetessa, i fiori, Dio, il giardiniere per eccellenza, creatore del primo e indimenticato giardino dell’Eden, di cui tutti i giardini terrestri non sono altro che pallida imitazione, “quando la terra si appannò di petali”» – Alessandro Clericuzio, in Il regalo di una strana lucidità – L’Osservatore Romano
«Nelle cinquantaquattro poesie della raccolta “L’iris selvatico” (1992), la Glück ridona la parola alle piante e ai fiori coltivati nel giardino di casa nel Vermont, che d’altronde costituisce un piccolo specchio oscuro dell’Eden, il Primo Giardino» – Mario Andrea Rigoni, Corriere della Sera
È il tramonto e noi, a occhi aperti, guardiamo un giardino, verde e rigoglioso. Ascoltiamo il suono del vento che agita un campo di margherite. Osserviamo le foglie rosse di un acero: cadono persino in agosto, nel primo buio. Guardiamo laggiù: un bocciolo di rosa selvatica comincia a schiudersi, come un cuore protetto. Nel New England di Louise Glück, l’estate è breve e ogni fiore ha la sua voce, dolce e discreta; la stessa della poetessa, che qui canta caducità ed eternità, bellezza e morte, cura e indifferenza: il flusso del tempo che scorre, il flusso delle emozioni che scorrono sulla nostra pelle, in ogni giorno, in ogni attimo sfuggente della nostra vita.