Veniva a prendersi qualcosa che gli mancava. Una seconda porzione di Brinkebüll. Ritrovava cose che potevano ancora tornargli utili, alcune quasi dimenticate. Gli odori e i rumori di quella casa. Il suo trasporto per quel paese, che lo conosceva molto meglio di quanto lui non conoscesse se stesso. Era come frugare dentro di sé, mettere in ordine, rovistare su fondi polverosi, riscopriva anche vecchie parole che non aveva più detto né sentito per decenni. Il suo basso tedesco era come l’orologio da taschino, ereditato da Sönke Feddersen, non più al passo con i tempi ma ancora funzionante. (pag. 251)
Tornare a casa, di Dörte Hansen, Fazi editore 2020, traduzione di Teresa Ciuffoletti, pagg. 310
“Gli aerei lasciavano tracce, scie bianche, parallele, croci. Il cielo sopra Brinkebüll era pieno di segni, ma all’infuori di Marret non li vedeva nessuno”, e sì che Marret si affannava, in giro per il paese, ad avvertire tutti che “È la fine del mondo”!
Le nuvole incombono pesantemente sul Geest, nella Frisia settentrionale (siamo nel Land dello Schleswig-Hollstein, il più a nord del Paese) quando Ingwer Feddersen, quarantotto anni, professore di preistoria e docente presso l’Università di Kiel, si prende un anno sabbatico e torna al suo paese natale.
Paese e paesaggio che non sono uno sfondo pittoresco: fin dall’inizio la voce autoriale chiarisce che non siamo di fronte ad una narrazione che sfocia nell’idillio di una felice realtà rurale, ma ci troviamo su una terra morenica, levigata dal potente vento del nord, schiacciata sotto un cielo dove le nuvole corrono come mandrie furiose.
Ovunque andasse e qualunque cosa facesse, era come se ci fosse un bancone tra lui e il resto del mondo. (pag.66)
Ingwer ha ancora qualcosa da rimediare, da ricomporre qui. Nonna Ella sta andando alla deriva a causa della demenza, il nonno Sönke, ultranovantenne, mantiene ostinatamente la posizione nella sua vecchia osteria: ha passato tempi migliori, così come l’intero villaggio. Quando è iniziato questo declino? Negli anni ’70, quando dopo la ricomposizione fondiaria (una epocale riforma agraria) sono scomparse prima le siepi e poi gli uccelli? Quando le grandi fattorie – moderne ed efficienti – sono cresciute e le piccole sono scomparse? Quando Ingwer è andato a Kiel per laurearsi e divenire un docente universitario (caso unico del suo paese) e ha lasciato il vecchio Sönke alla locanda? Dörte Hansen, attraverso la vita di Ingwer Feddersen e dei suoi familiari e compaesani, racconta la scomparsa di un mondo rurale, la perdita, l’addio e un nuovo inizio.
Il romanzo di Hansen – che ha avuto un enorme successo in Germania, di pubblico e di critica – ruota attorno al concetto di Heimat: un concetto molto sentito nel mondo germanofono e che possiamo riassumere nella “piccola patria”. Una concezione che nasce nell’Ottocento e che il nazismo, con i suoi miti, aveva spazzato via; nell’immediato dopoguerra sembrava fuori tempo ma dalla fine del Novecento è tornato a riprendere consistenza. E il romanzo, col suo racconto che si snoda nell’arco temporale di cinquant’anni, ne testimonia il perché. Hansen riprende questo concetto e lo mantiene su un registro “tranquillamente malinconico”, concreto e privo di sentimentalismi, piuttosto con un sottile humor: non glorifica la vita del villaggio, non ne fa un mondo idilliaco, ma ne descrive, nel bene e nel male, la sua fisionomia, con molto realismo e con altrettanta consapevolezza che quel mondo non esiste più. Il concetto di Heimat che troviamo nel romanzo di Hansen non ha nulla a che vedere con l’amore neo-borghese per la campagna. Brinkebüll è un luogo immaginario che unisce in forma concentrata non solo le caratteristiche dei tanti veri “Bülls” tedeschi, ma di tanti villaggi in Francia, in Olanda, in Italia e forse in tutta Europa. Quindi non un romanzo locale, ma una narrativa europea, meravigliosamente descritta dalla prospettiva delle persone che sono plasmate dal paesaggio.
Il ritorno al paese di Ingwer mette in moto la memoria e il racconto, che alterna presente e passato, facendo riaffiorare i ricordi dell’infanzia di Ingwer e le persone che hanno popolato la sua vita: i nonni-genitori, la madre-sorella, i compagni di scuola, il maestro Steensen, e tutti gli altri compaesani, tutti conosciuti uno ad uno, come accade nelle piccole realtà rurali.

Ingwer è il figlio di Marret, una ragazzina affetta da ritardo mentale, che lo ha avuto in modo inconsapevole a diciassette anni: non si sa chi sia il padre, sono invece certi i nonni, Sönke ed Ella, che per Ingwer saranno per tutta la vita papà e mamma, mentre Marret sarà da lui vissuta come una sorella.
Marret era qualcosa di fugace, in balia dei venti, che cambiava forma di continuo, duna di sabbia, nuvola, mercurio, non aveva confini. (..) Una figlia come Marret era un gioco con regole difficili e te lo davano senza istruzioni. (pag. 39)
Il personaggio di Marret è uno dei più riusciti e delicati, una madre naturale che Ingwer scopre essere tale quando è già grandicello, un segreto svelato con malizia dai compagni, e una cosa di cui quasi si vergogna:
Marret gli aveva reso facile pensare a lei come a una sorella. Era sempre stata così lontana da tutto ciò che una madre avrebbe detto o fatto, dall’aspetto e dai modi materni. Uno poteva anche continuare a vergognarsi di Marret Fine-del-mondo come di una sorella, era quasi normale. (pag. 163)
Allo stesso modo, spicca la figura del maestro Steensen, che insegna nella scuola rurale in cui tutti i bambini stanno in un’unica classe, e che è depositario di un altro segreto sulla discendenza di Ingwer. Steensen insegna storia locale e con i suoi modi un po’ rudi cerca di inculcare ai bambini l’amore per quelle terre spazzate dal vento e per la loro millenaria storia, oltre che a parlare il tedesco scolastico. Sa bene che la maggior parte di quei ragazzi ripercorrerà le orme dei loro genitori, divenendo contadini e artigiani, ma sa anche riconoscere quelli che potranno ambire ad un futuro diverso, lontano dal villaggio, come nel caso di Ingwer e di Gönke. Il maestro si oppone al volere del nonno, che aveva progettato per Ingwer un futuro alla locanda, dietro il bancone, come lui stesso ha fatto continuando il lavoro di suo padre. E infatti il ragazzo verrà avviato al liceo e poi all’università anche se poi, ormai a distanza di due decenni, Ingwer guarderà alla sua fuga come a un tradimento nei confronti del nonno.

Nel grande specchio appeso in corridoio vide un uomo barbuto e slavato con dei jeans scoloriti. Alto e asciutto, camicia grigia, fin qui non era poi così male. Quello che lo spaventò fu il suo sguardo: uno di quegli eruditi frisoni che conosceva dai dipinti a olio o da vecchie fotografie in bianco e nero sembrava scrutarlo dallo specchio. Malinconici della Germania del Nord, che nei mesi invernali si immergevano in cronache antiche e per decenni rimuginavano su vocabolari dialettali, autori di poesie sulla nebbia densa, sul fogliame avvizzito e sull’erica, di novelle sugli spiriti senza pace che tornano dall’aldilà. (pag. 89)
In quanto ad ironia ed autocritica…… ecco qua un bell’esempio.
Per Ingwer il ritorno al paesello è anche la possibilità di mettere in pausa la sua insoddisfacente vita a Kiel; un anno sabbatico in cui i contatti con i suoi due coinquilini sono rarefatti. La convivenza consiste in un grigio ménage à trois, governato da Ragnhild, una donna di origini alto borghesi, che apparentemente rigetta, salvo poi abitare in una dimora di famiglia piena di stucchi, mobili antichi e tappeti di seta; architetto del cemento, falsa pentita, è assecondata da Claudius, il terzo coinquilino, che è uno snob velista nullafacente. Questa convivenza dura da anni e se fino ad ora è andata bene – con non pochi malumori – è chiaro che, alla soglia dei cinquant’anni, comincia ad andare stretta.
Cinque stanze, tre inquilini, era da tanto che i conti non tornavano, sistemi di calcolo a parte. Due uomini, una donna, né carne né pesce. Probabilmente la loro era la coabitazione più longeva di Kiel, il primo alloggio in comune che sarebbe passato senza soluzione di continuità dagli studenti agli anziani. (..) Le cose erano andate gradualmente alla deriva, un po’ come i continenti, lui percepiva il modo in cui si stavano allontanando, una corrente fredda sotterranea, un tremito e un brontolio che gli erano nuovi. (..) Negli ultimi mesi si era ritrovato troppo spesso di fronte a una porta chiusa senza far rumore. (pagg. 60-63)
Il ritorno a casa è la ricerca di un caldo abbraccio, che fa riaffiorare i sapori, i volti e i suoni dell’infanzia, il senso di protezione di quella specie di tana che è la taverna di Sönke Feddersen, baricentro del paese e della vita dei suoi abitanti, dove si celebrano matrimoni, anniversari e nascite, dove l’orchestrina fa ballare tutti fino a notte fonda, dove cantava spensierata Marret, la madre adolescente, la voce profetica che attraversa il paese annunciando la fine di un mondo che, finché non sarà davvero finito, riesce a vedere solo lei.
La sapiente scrittura di Hansen, capace di tratteggiare persone e paesaggi con vivida espressività, è sorretta lungo tutto il romanzo da una colonna sonora: Ingwer ama particolarmente Neil Young, che ascolta sempre in auto, ma è cresciuto con il jukebox della locanda che rimbombava i brani orecchiabili di quegli anni che gli sono rimasti impressi nella memoria divenendo un tassello indelebile della sua vita. Con un’intensità magistrale Dörte Hansen evoca gli odori e i rumori del mondo rurale e rende la scomparsa di quello stile di vita un’esperienza dei sensi.
Vide il suo paese, piccolissimo, sotto un cielo immenso, e qualcosa prese a vibrare dentro di lui. Il paese toccava le sue corde come quelle di uno strumento, suonando una canzone d’infanzia, un canto popolare. (pag. 279)
Tornare a casa (Mittagsstunde, il titolo originale, si rifà all’ora di riposo dopo il pranzo, una tradizione radicata) è un romanzo profondo sulla vita e sul fatto che non possiamo fermare il passare del tempo. E sul fatto che potrebbe essere il momento per qualcosa di nuovo.
Dörte Hansen è nata nel 1964 in un paese vicino a Husum, nella Frisia settentrionale, e ha frequentato l’Università di Amburgo. Ha studiato svariate lingue, tra cui il gaelico, il finlandese e il basco, e ha conseguito un dottorato in Linguistica. In seguito ha lavorato come autrice per la radio e la stampa. Tornare a casa, il suo secondo romanzo, è stato promosso a bestseller dell’anno da «Der Spiegel» e dai librai tedeschi. Ha vinto il Grimmelshausen-Preis e il Rheingau Literatur Preis.
Mi hai convinta … domani andrò a cercarlo!
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Guarda, a me è piaciuto molto ma non voglio influenzarti troppo….. Di sicuro è un romanzo di grande qualità, nella scrittura, nello sviluppo, nei temi.
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Anche questo nella nuova lista!! Bellissimo “racconto”!!!
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Merita!!
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Lo immagino!!
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