Bisognava fare pratica per essere capaci di reggere la delusione, e io non ne avevo fatta abbastanza. Mi distesi sul letto e provai a respirare per alleviare il peso schiacciante che mi sentivo nel petto. Per qualche ragione pensai a Vern, e alla sua sottile mano scura che teneva il fiammifero acceso per illuminare il nostro tepee di rami. Un lampo di conforto mi attraversò il petto e poi scomparve di nuovo. Ci volle una quindicina di minuti perché la delusione si trasformasse in rabbia. (pag. 141)

Il nostro riparo, di Frances Greenslade, Keller editore 2015, traduzione di Elvira Grassi, pagg. 358, la mia recensione

British columbia

INCIPIT

È stata Jenny a chiedermi di scrivere tutto questo. Voleva che riordinassi gli eventi per lei, che li mettessi in fila, grano dopo grano, una storia ufficiale, come un rosario che potesse recitare all’infinito e a cui affidarsi. Ma ho iniziato a scrivere anche per lei, per mamma. O Irene, come la chiamavano gli altri, visto che tanto tempo fa si è disfatta di qualunque significato “mamma” avesse avuto per lei. E neppure mentre scrivevo c’è stato verso di porre fine al senso di colpa che affiorava quando pensavamo a lei: non l’abbiamo cercata. Se ne è andata, come un gatto che una notte sguscia fuori dalla porta sul retro e non ritorna più e tu non sai se è finito nelle grinfie di un coyote o di un falco o se si è fatto male da qualche parte e non è riuscito a tornare indietro. Abbiamo lasciato che il tempo passasse, abbiamo aspettato, fiduciose, perché lei è sempre stata la migliore delle madri. È lei la madre, ci dicevamo, perlomeno all’inizio. Non so chi sia stata la prima a dirlo. Lo so eccome invece. Sono stata io. Jenny diceva: «Dovremmo cercarla». E io: «È lei la madre». E quando lo dicevo ignoravo il peso che quelle parole avrebbero avuto sulle nostre vite. Possedevano il suono della verità, piene e inscalfibili. Ma sono diventate un’ancora che ci ha trascinate lontano dai nostri impulsi più sinceri.