Non che non provassi niente per quell’uomo assassinato; pensavo che non fosse giusto per un uomo essere assassinato e ritenevo che, in un mondo perfetto, l’assassino dovesse essere consegnato alla giustizia. Ma non credevo che esistesse una giustizia per i negri. Pensavo che una qualche giustizia per un nero potesse esserci se lui aveva i quattrini per oliarla. Il denaro non è una puntata sicura, ma è la cosa che più somiglia a Dio tra tutte quelle che ho visto in questo mondo. (pag. 151)

Il diavolo in blu, di Walter Mosley, 21 Lettere editore 2021, traduzione di Bruno Amato, pagg. 263, copertina disegnata da Jacopo Starace

La casa editrice 21 Lettere porta alle stampe uno dei più famosi autori americani di Hard boiled, Walter Mosley, autore di molti gialli, insignito nel 2020 del National Book Award alla carriera. Il romanzo che da ieri trovate in libreria è il primo in cui compare Easy Rawlins, investigatore improvvisato, ex soldato della Seconda guerra mondiale, abbastanza navigato da sapersi muovere senza passi falsi, astuto ma corretto, capace di frequentare i bassifondi della L.A. nera, i locali clandestini equivoci popolati da gente che uccide per poco, navigato ma con un animo buono. Difficile separare il personaggio letterario da quello apparso sul grande schermo con le sembianze di Denzel Washington che magistralmente si è calato nei suoi panni.

Fondamentalmente, Il diavolo in blu è un classico mistery plot che ruota attorno alla ricerca di una ragazza, ovviamente bella e misteriosa. Ciò che lo distingue, e ciò che ha procurato a Mosley lodi e attenzione per il suo romanzo d’esordio trent’anni fa, è l’ambientazione in una Los Angeles del secondo dopoguerra e le relazioni razziali tesissime che circondano l’azione.

Avevo paura perché non stavano seguendo la routine. Avevo già altre volte giocato a guardie e negri. I poliziotti ti acchiappano, ti prendono nome e impronte digitali, poi ti sbattono in una camera di sicurezza con altri “sospetti” e ubriachi. Quando ti è venuta la nausea per la puzza di vomito e il turpiloquio, ti portano in un’altra stanza e ti chiedono perché hai rapinato quel negozio di alcolici e che cosa ne hai fatto del denaro. (pag.87) Ero a quindici isolati dal locale di John e dovevo ripetermi continuamente di rallentare. Sapevo che un’autopattuglia avrebbe arrestato qualsiasi nero che avesse visto correre. (pag. 95)

Easy Rawlins è un nero orgoglioso e cocciuto, e la storia si sviluppa in una Los Angeles della fine degli anni ’40 sempre più stratificata, un tempo in cui lui e tutti i neri, a prescindere da come si comportano, vengono emarginati e ghettizzati. Easy – Ezechiel, all’anagrafe – è stato appena licenziato per non essersi piegato al suo capo bianco, deve pagare l’ipoteca della casa e ha bisogno di soldi, quando accetta un lavoro per un uomo bianco che gli chiede di trovare la ragazza vestita di blu scomparsa. Comincia così il lavoro di investigatore – o meglio, lo deciderà dopo di fare questo mestiere – e il lettore viene trasportato in questo mondo sordido e pericoloso, che visto attraverso gli occhi di Easy, mostra senza filtri un ambiente dove gli uomini bianchi ricchi e potenti sono altrettanto pericolosi e misteriosi come i personaggi neri erano stati tipicamente ritratti all’epoca. Il “sospetto di razza” opera in entrambe le direzioni nel mondo di Easy.

Un posto in fabbrica non è mica tanto diverso che lavorare in una piantagione del Sud. I boss vedono tutti gli operai come se fossero bambini, e quanto sono scansafatiche i bambini lo sanno tutti. Per questo Benny pensò di avermi dato una lezioncina di responsabilità perché lui era il boss e io il bambino. Gli operai bianchi non avevano il problema di un trattamento del genere perché non venivano da un posto dove un uomo lo si chiama sempre ragazzo. (pag.78)

Costretto a muoversi tra una scia di morti, attento a schivare individui pericolosi e violenti poliziotti corrotti, Easy cerca di ottenere le informazioni che gli servono per essere pagato; non è uno attratto dalla violenza. La userà se necessario, ma non si crogiola in atteggiamenti da duro, non agita i pugni per minacciare, anche quando viene provocato. Gioca più d’astuzia e d’esperienza per scoprire ciò che cerca e per trarsi d’impiccio quando le cose diventano pericolose. Ecco allora che Mosley introduce nella storia un altro personaggio, un amico d’infanzia di Easy, Mouse: lui è il duro classico, sa come ottenere informazioni, utilizza le collaudate modalità di pestaggi e minacce, e talvolta anche l’omicidio. Inserendo questo personaggio, Mosley può rendere credibile l’azione e allo stesso tempo mantenere “pulito” Easy. Il suo Easy Rawlins è più eroico in senso classico, non viene ritratto come il tipico delinquente afroamericano che popolava l’immaginario collettivo dei bianchi. Easy ha una sua etica e fa di tutto per restarci incollato.

Rimane comunque sempre molto credibile perché è imperfetto; angustiato dalla prospettiva della povertà che incombe su di lui, deve accettare qualche compromesso che lo spinge nella sua nuova vita di investigazione. E’ molto umano, ripensa spesso a ciò che ha visto durante la guerra – la liberazione degli ebrei dai campi di concentramento, ad esempio – e capisce il valore della vita. Ha dubbi, insicurezze e di tanto in tanto cade vittima del suo stesso cuore (e della sua libido). Tutto ciò serve a renderlo un personaggio in carne e ossa progettato per la longevità in una serie.

Easy viene dal Quinto Distretto di Houston, un quartiere difficile, e dopo avere servito nell’esercito, è approdato a Los Angeles in cerca di fortuna, come tanti. Conosce il razzismo in prima persona e vedere troppi uomini bianchi in un giorno lo innervosisce. Easy è seduto nel bar del suo amico Joppy in un quartiere operaio e nero quando un uomo d’affari bianco, DeWitt Albright, lo ingaggia per rintracciare una bella ragazza francese di nome Daphne Monet che ha una “predilezione per la compagnia dei negri”. Oltre alla bellezza, la ragazza si porta in giro, in una valigia, trentamila dollari di qualcun altro, che non a caso ha incaricato la ricerca. Easy viene coinvolto in una catena di eventi che lo porta, bar dopo bar, a incontrare una serie di personaggi, la maggior parte dei quali cerca il proprio vantaggio nella ricerca di Daphne. Con i morti che si accumulano, non c’è modo di tornare indietro per Easy, dato che è perseguitato da brutali poliziotti bianchi e da alcuni “fratelli” non troppo amichevoli. In realtà dietro a tutta la storia si nascondono due personaggi politici, ciascuno ricattabile e deciso a fare fuori l’avversario pur di ottenere il proprio successo. Ma tutto passa attraverso la ragazza in blu e i loschi personaggi che le ruotano attorno. Il linguaggio è duro e il ritratto della vita di città grintoso e reale.

DEVIL IN A BLUE DRESS, Jennifer Beals, 1995, © TriStar

Sono passati trent’anni dalla data di pubblicazione di Devil in a Blue Dress ma il libro è di un’attualità incredibile. L’America era ancora – e lo è tuttora – alle prese con la propria storia, la propria inconscia consapevolezza della razza in un irriducibile braccio di ferro con tutti i “diversi”, additati per colore, per appartenenza a fedi o lingue o disponibilità economica. Utili finché possono essere considerati dei consumatori, uomini e donne sono ingaggiati nell’eterna lotta per andare avanti, tenere il passo o sfuggire alle conseguenze dell’essere neri e poveri, essere bianchi e poveri, o semplicemente essere i perdenti in un sistema, una nazione, una pandemia mondiale o qualsiasi altra evenienza di volta in volta.

Quello che rende questo mistery/crime un romanzo di valore letterario è proprio la sua capacità di rendere un ambiente, una società con tutte le sue idiosincrasie, vista con gli occhi di chi ci vive dentro, immerso fino al collo, e ne deve accettare le regole per sopravvivere. Walter Mosley racconta una storia criminale ambientata in un paese dove i neri poveri sono emigrati dal profondo sud alla California meridionale, di come hanno cercato di emanciparsi e hanno fallito, ma poi ci hanno riprovato, in una continua lotta sostenuta dalla speranza e dalla resilienza. Il diavolo in blu onora la tradizione hard-boiled di Hammett/Chandler/Cain nella sua trama e attitudine, ma Mosley ci porta lungo alcune strade meschine che i suoi predecessori spirituali non avrebbero mai potuto avere perché erano bianchi. Esattamente come fa magistralmente ne La farfalla bianca.

“Vorrebbe essere bianca. Per tutti questi anni la gente non ha fatto altro che dirle quant’è bella e che pelle chiara ha, ma lei sa che non potrà mai avere quello che hanno i bianchi. Allora fa finta e poi perde tutto. Lei può amare un bianco ma lui può amare solo la ragazza bianca che crede sia”.
“E questo che c’entra con me?”
“Per te è la stessa cosa, Easy. Impari un sacco di roba e pensi come pensano i bianchi. Pensi che quello che è giusto per loro è giusto per te. Lei sembra bianca e tu pensi come se fossi bianco. Ma, fratello, non sapete che siete tutti e due dei poveri negri. E un negro non sarà mai felice finché non si accetta per quello che è.” (pag.251)

Walter Mosley è nato in California, figlio di Ella Slatkin, un’impiegata, e di Leroy Mosley, un bibliotecario scolastico. Il padre era afroamericano e la madre era ebrea. I suoi genitori si trasferirono da South Central a West quando lui aveva 12 anni. Frequentò il Johnson State College e conseguì una laurea in scienze politiche. Attualmente vive a New York. Ha scritto una serie di gialli storici di grande successo con protagonista il duro detective Easy Rawlins, un investigatore privato afroamericano e veterano della seconda guerra mondiale che vive a Watts, nei dintorni di Los Angeles. Tra le sue opere, anche saggi. Ha ricevuto numerosi premi e una laurea honoris causa.