Quante volte ero rimasto di fronte alla vetrina ad ammirare l’Iskrafon! Ogni volta che andavo a scuola e che ritornavo. Persino di domenica chiedevo alla nonna di fermarci un attimo perché dovevo allacciarmi le sca

rpe, in realtà guardavo dal basso in alto quell’apparecchio da cui mi separava solo un vetro. Due casse, e poi la scritta «STEREO»! (..) Una volta tentati di convincere il negoziante perché mi facesse provare l’Iskrafon, ma evidentemente si vedeva da lontano che non ero un vero acquirente. (..) Sulla strada di casa pensavo alla mancanza di un giradischi come a una dura punizione. (..) A volte mi facevo prestare un disco e lo nascondevo a casa finché non veniva il momento di restituirlo. Non avevo niente per ascoltarlo.

Il giradischi di Tito, di Miha Mazzini, Fazi editore 2008, traduzione di Michele Obit, pagg. 284, la mia recensione

INCIPIT

Scorrono le dita tra i dischi. Scorrono e lasciano intravedere appena, nello spazio tra uno e l’altro, un frammento di fotografia o una scritta – sufficienti perché la parte restante della copertina faccia breccia nella mia memoria. Subito la sostituisce una nuova immagine, a volte un pezzo musicale, un riff di chitarra, una frase vocale. «Light all the fires…». Di nuovo. Estraggo il disco e lo fisso. Inghiotto saliva. Mi guardo attorno, nel negozio. I contenitori, colmi di dischi in vinile, e dietro al bancone una mocciosa dal taglio cherokee che appiccica i codici a barre su un mucchio di dischi che qualcuno ha appena lasciato lì. «He is a king and he wants to go home…» Il mio primo disco. Avevo dodici anni, so questo. Ora mi chiedo: com’è possibile che il primo ricordo della mia vita non sia un volto o un avvenimento, ma una copertina? Com’è che non mi ricordo d’altro e tutto ciò che ho accumulato nei miei primi dodici anni di vita è la copertina di una compilation tedesca dei T.Rex? Una mossa brusca sospinge la mia mano verso il basso – il disco vuole tornare al suo posto, assieme agli altri. Se lo scordi! Stringo i denti, oppongo resistenza, ma poi – senza alcun motivo – volto il disco e leggo il titolo del pezzo che da un po’ mi frulla per la testa. King of the Rambling Spires. Ma… Spires? Non significa spiriti? E Rambling? Può essere che in tutto questo tempo mi sia ingannato? Sapevo a memoria le canzoni di tutti i dischi che mi passavano per le mani, ne avevo controllato ogni parola sul dizionario, anche più volte. Come ho fatto a sbagliarne due nello stesso titolo, per di più insolite e poco usate? Mi passano per la mente frammenti di immagini slegate: la morte, elegante, in frac ma senza testa; un angelo claudicante al quale chiedo scusa; corpi incurvati che ballano un twist; una dentiera che si nasconde negli angoli bui in attesa di nuove vittime; una mano rinsecchita che striscia lentamente fuori da un sepolcro; infine la lancetta color crema  sul tachimetro che tremolante si avvicina al numero trenta. Fanculo. Son dovuto arrivare a quarant’anni per scoprire in un solo attimo un decennio perduto. Ecco: per crescere, quante volte avrei dovuto ascoltare…