Eh sì, perché anche se siamo legati all’idea che le piante siano inamovibili, vi assicuro che le piante possono, anzi, hanno viaggiato. E allora partiamo con loro, facciamo un tour attraverso i libri che ci raccontano le loro storie e che ci lasceranno stupefatti e desiderosi di seguirle, di amarle e di difenderle. E se siete curiosi di scoprire da dove derivano i loro nomi e quali miti sono giunti a noi dalla Grecia antica riguardo alle piante, vi rimando a questo post.

Chi meglio di Stefano Mancuso ci può accompagnare in questo viaggio letterario? Scienziato di prestigio internazionale, ritenuto un “world changer”, ha scritto numerosi libri sulle piante (ve ne ho parlato in questo focus); e ci ha aperto un mondo. Partiamo, quindi, con questo libro:

Nel 1896 il botanico tedesco Wilhelm Pfeffer realizzò un filmato in time lapse per studiare il comportamento e i movimenti delle piante. Pfeffer mostrò, davanti ai volti sbigottiti dei colleghi, la fioritura di un tulipano e i movimenti esplorativi delle radici nel suolo. Per la prima volta fu possibile vedere quello che sino a quel momento si poteva solo immaginare: a muoversi non sono solo gli animali ma anche le piante. Esse si spostano e si muovono per procurarsi nutrimento, per difendersi, per riprodursi. Non potendosi spostare dal luogo in cui nascono, le piante hanno bisogno di aiuto per ricevere e inviare all’esterno… messaggi, polline o semi. Per questo hanno messo in piedi una specie di sistema postale. Le piante aviatori si affidano all’aria, le naviganti all’acqua, ma più spesso usano come postini gli animali, soprattutto quando si tratta di incarichi molto delicati come la difesa o la riproduzione. La bardana, ad esempio, produce dei semi dotati di uncini che si attaccano in maniera tenace al pelo degli animali. Se avete un cane e lo portate a passeggio in campagna sapete di cosa parlo. I semi delle naviganti possono percorrere migliaia di chilometri e passare anni in acqua prima di approdare in luoghi sicuri dove germinare: sappiamo di noci di cocco entrate nella corrente del Golfo e approdate sulle coste dell’Irlanda, oppure del giacinto d’acqua scappato da un giardino botanico di Giava che ormai abita quasi ogni continente.

«Spostarsi in lungo e in largo per il mondo, raggiungendo i posti più impraticabili: è un’attività difficile da associare a esseri viventi incapaci di muoversi, eppure le piante hanno mostrato una propensione all’esplorazione e alla conquista superiore a quella di qualsiasi giramondo umano» – Il Venerdì

Continuiamo con il libro del filosofo Emanuele Coccia, il quale ci spiega che abbiamo molto da imparare, dalla vita vegetale.

Abbiamo adorato dèi antropomorfi e fatto per millenni degli animali l’oggetto del nostro culto. Eppure la forza cosmogonica più importante sul nostro pianeta sono le piante: sono loro le nostre ultime divinità. Sono loro ad aver prodotto il mondo così come lo conosciamo e lo abitiamo. Sono loro a mantenerlo in vita. Attraverso la fotosintesi, hanno permesso di cambiare lo statuto della materia che ricopre la crosta terrestre, trasformandola in centro di accumulazione dell’energia solare. E soprattutto hanno trasformato irreversibilmente la nostra atmosfera. Non illudiamoci: lungi dall’essere un elemento qualunque del paesaggio terrestre, le piante cesellano e scolpiscono incessantemente il volto del nostro mondo.

Alberi-monumento, foreste urbane, fossili viventi, antenati selvatici, specie in pericolo e salvataggi in extremis, viaggi avventurosi e spionaggio vegetale, coltivazioni fantascientifiche e termometri del pianeta. Il mondo vegetale, a chi lo sa ascoltare, racconta storie incredibili. Storie che parlano soprattutto di noi.  i fiori e gli alberi parlano, e raccontano storie straordinarie. Storie di foreste nascoste e alberi secolari, di collezionisti maniacali o di specie che hanno attraversato il mondo e la storia. Lo scrittore ed esperto di botanica Fabio Marzano ha raccolto in questo libro alcune fra le più interessanti. Si parla di specie importate da paesi esotici e protagoniste in Italia di fallimenti industriali memorabili o di arricchimenti fulminei. Degli itinerari segreti, spesso favoriti da atti di vera e propria pirateria biologica, che molti di questi rari esemplari hanno seguito per arrivare alle nostre latitudini. Dell’attività di quelli che all’epoca si chiamavano cacciatori di piante, a metà tra il botanico e il trafficante, e che oggi lavorano nelle università e nei centri di ricerca – e sono soprattutto donne. 

Il meraviglioso mondo delle piante racchiude anche un “lato oscuro” – affascinante e, a volte, spaventoso – che svela fino in fondo i meccanismi segreti dell’intelligenza vegetale. Le piante sono meravigliose. Sono intelligenti, allietano la nostra vita, ma sono anche molto altro: producono l’ossigeno che respiriamo, i princìpi attivi utili per curarci, le sostanze nutritive alla base della nostra alimentazione. Le usiamo per costruire case e navi, produrre farmaci e cosmetici, insaporire i piatti, creare indumenti. Talvolta però dimentichiamo che esistono anche piante terribili. Alcune producono veleni, altre si accontentano di provocare allergie e poi ci sono piante che fanno il doppio gioco: possono essere tossiche e persino letali, ma anche avere effetti terapeutici importanti. Ovviamente non esistono piante buone o cattive, ma vegetali intelligenti che, non potendo fuggire in caso di aggressione, hanno inventato alcuni “semplici” trucchetti per adattarsi a particolari condizioni ambientali, traendo vantaggio dall’acquisizione di nuovi caratteri. E, nonostante la loro cattiva reputazione, non hanno ancora smesso di sorprenderci.

Dopo quattro anni di lavoro sul campo tra i Runa dell’Alta Amazzonia, in Ecuador, l’antropologo Eduardo Kohn attinge alla ricca etnografia e biologia dell’immensa e minacciata foresta “pensante” per esplorare come i popoli amazzonici interagiscono con le numerose creature che abitano uno degli ecosistemi più complessi al mondo. Se focalizziamo l’osservazione antropologica sulle modalità in cui gli umani entrano in relazione con gli altri esseri viventi, il tradizionale punto di vista occidentale dell’analisi, che ha l’effetto di separarci dal resto del mondo, collassa. Tuttavia, la novità maggiore del saggio sta nell’evidenziare che questo collasso può rappresentare un’opportunità: approfondendo come le nostre vite e quelle degli altri viventi siano inestricabilmente interconnesse nella grande rete della foresta, davanti a noi si dischiudono nuovi strumenti concettuali e nuove visioni ispirate alla catena delle interrelazioni e al linguaggio con cui il resto del mondo parla e ci parla. In questo lavoro rivoluzionario, Kohn conduce dunque l’antropologia verso una direzione inedita ed entusiasmante, offrendo un modo più ampio e aperto di pensare a un pianeta radicalmente condiviso. Prefazione di Emanuele Coccia.

“È necessaria una coscienza planetaria”: Byung-Chul Han volge il suo sguardo penetrante alla terra e alla natura, ma non si tratta di pura riflessione, perché questo libro appassionato che incrocia Goethe, Hölderlin, Heidegger, Schubert e D’Annunzio è anche un diario di giardinaggio. Più il filosofo si dedica al suo giardino berlinese – che chiama Bi-Won, “giardino segreto” in coreano -, più cresce in lui il rispetto per la bellezza della terra (rappresentata nel testo con le splendide illustrazioni di Isabella Gresser). In questo viaggio tra le stagioni, le piante e i pensieri il lettore imparerà di nuovo lo stupore e la meraviglia di fronte all’unicità e alla fragilità del nostro pianeta. Han scrive una dichiarazione d’amore per la natura che è anche un appello all’umanità per proteggerla: “Lo sperare è la modalità temporale del giardino, per cui il mio elogio della terra è rivolto alla terra che verrà”.

“Non tutte le culture”, scrive Suzanne Simard nell’introduzione a questo libro, “soffrono del complesso di superiorità antropocentrico, ma quella attualmente più potente e dominante sulla faccia della Terra sì, e ha provocato diverse crisi su scala mondiale. Per evitare il disastro socio-ecologico, servirà una rivoluzione. Bisognerà decostruire l’approccio riduzionista e provinciale che ci contraddistingue, per comprendere la vita e inventare modi completamente nuovi di intendere il mondo”. E proprio questa la meta del viaggio visionario – e necessario – di Monica Gagliano: muovendosi tra autobiografia e indagine scientifica, “Così parlò la piantaci spinge a considerare le piante non come oggetti, bensì come esseri dotati di soggettività, coscienza e volontà, e dunque capaci di un punto di vista e di una voce distinti. Gagliano racconta i suoi incontri ravvicinati con le piante, ma anche con sciamani delle piante, indigeni che hanno conservato le tradizioni e mistici di tutto il mondo, integrando poi tutte queste esperienze con una rigorosa presentazione delle recenti e importanti scoperte scientifiche sulla comunicazione e la cognizione nel mondo vegetale, ambito di ricerca nel quale lei stessa svolge un ruolo di primo piano. Perché “il mondo vegetale non ha mai smesso di insegnare agli esseri umani, e noi, ascoltando, non abbiamo mai smesso di imparare”. “Così parlò la pianta” è un invito all’ascolto, al dialogo e al confronto, per un cambiamento che è ancora possibile.

Il cambiamento climatico di origine antropica sta devastando il pianeta: un dato ormai impossibile da ignorare. Un professore di Arboricoltura, Francesco Ferrini, e uno scrittore di “green thriller”, Ludovico Del Vecchio, uniscono le forze per raccontare l’alleato più prezioso nella lotta per sopravvivere a noi stessi: l’albero, compagno silenzioso dell’umanità, la cui storia precede e affianca la nostra. La Terra salvata dagli alberi spazia dagli aspetti scientifici (l’evoluzione delle specie, la distribuzione sulla superficie terrestre, l’intrinseca capacità di arrestare la catastrofe climatica) a quelli sociali (il contributo dei parchi e dei giardini nel favorire una pacifica convivenza tra cittadini), psicologici (i benefici del verde sulla mente) e culturali (come continua fonte di ispirazione artistica), per arrivare alle azioni virtuose quanto improrogabili che dovremmo adottare come collettività e come individui. Una guida preziosa per la creazione di una governance sia locale che internazionale nella gestione del verde urbano, con un invito rivolto a ciascuno di noi a intraprendere da subito una gentile “resistenza verde”.

Vi suggerisco anche il secondo libro di Francesco Ferrini e Ludovico Del Vecchio in cui propongono di passare dalle parole ai fatti, sporcandoci letteralmente le mani di terra per sanare quanto più possibile i mali provocati dall’inquinamento. La soluzione più efficace è piantare alberi; dunque gli autori ci guidano con indicazioni semplici e concrete (quali alberi scegliere, dove sistemarli, come procedere), abbinate a una riflessione sulla sostenibilità delle azioni quotidiane. Un volume pratico, ricco di informazioni utili; un libro appassionato che ci fa capire come ognuno di noi possa fare la propria parte, adottando un approccio diverso alla vita nella natura e nei futuri centri urbani. Un manuale di resistenza botanica tenace e inarrestabile per agire secondo regole sempre più ecologiche e intelligenti.

Peter Wohlleben ci svela nel suo libro i misteri più affascinanti di questi giganti: scopriamo che sono dotati di forme di comunicazione e sensibilità sorprendenti; che sono solitamente esseri prudenti, ai quali ogni forma di fretta è estranea; che gli esemplari di una stessa specie tendono ad allearsi, a difendersi l’uno l’altro o a sostenere i malati (ma questo non accade nel caso degli alberi piantati dall’uomo); scopriamo che le betulle sono delle egoiste guerriere solitarie, ma anche che questo carattere impulsivo ha il suo prezzo, limitando la loro speranza di vita a 120 anni, che per gli alberi è molto bassa; oppure che il faggio tende a crescere a tal punto da aprirsi un varco tra le chiome di altre specie per poi oscurarle con il suo fogliame finché i concorrenti oppressi non muoiono. “La saggezza degli alberi” è il racconto di un mondo che credevamo di conoscere ma che invece è ancora tutto da decifrare, un libro ricco di sorprese su essere viventi che ci somigliano molto più di quanto non crediamo.

Il biologo David George Haskell rivolge le sue straordinarie capacità di osservazione a una dozzina di alberi in giro per il mondo, per dimostrare come la storia, l’ecologia e il benessere dell’umanità siano strettamente intrecciati con la vita delle piante. Che si trovi immerso nel fitto fogliame di una foresta dell’Amazzonia, all’ombra di un pero cinese a Manhattan o di un ulivo di Gerusalemme, Haskell è sempre in grado di entrare mirabilmente in contatto con la complessa energia vibrante di interi ecosistemi. Allertati, i suoi sensi s’affinano: non vi è poro di foglia, granello di polline, molecola atmosferica, riverbero di un canto d’uccello o ritmico crepitare di pioggia che sfugga all’acume del suo sguardo e alla finezza del suo udito. E il lettore, rapito dalla lirica sensibilità della sua prosa, ammira e ascolta bellezze e paesaggi altrimenti inimmaginabili. Un albero del corallo ci fa comprendere il ricco tumulto ecologico della foresta tropicale minacciata dai giacimenti petroliferi. A migliaia di chilometri di distanza, le radici di un abete balsamico del Canada sopravvivono in terreni poveri solo con l’aiuto di funghi e una rete di connessioni di quasi due miliardi di anni. In Giappone, la ricerca del luogo d’origine del pino bianco rende lampanti inaspettate parentele tra le piante dell’Asia orientale e quelle dei monti Appalachi. Le sequoie pietrificate nelle Montagne Rocciose raccontano come il clima della Terra si sia sviluppato attraverso gli scambi tra alberi, comunità dei viventi e atmosfera. Sebbene le azioni degli uomini stiano sempre piú recidendo le reti biologiche del pianeta, gli alberi, grandi connettori naturali, ci insegnano ad abitare in relazione con ciò che è la fonte, la sostanza e la profonda bellezza della vita stessa.

Giuseppe Barbera – agronomo siciliano da sempre impegnato nella tutela dell’ambiente e del paesaggioesplora l’attrazione che gli esseri più evoluti del regno vegetale esercitano su poesia e letteratura dall’inizio dei tempi: dai poemi omerici, anzi dall’epopea di Gilgamesh, il primo uomo ad aver abbattuto un albero (per la precisione, un grande cedro cresciuto sulle montagne prossime all’Eufrate) e ad aver avviato con i suoi colpi d’ascia il disboscamento che, complice un inaridimento climatico, ha portato alla fine della civiltà mesopotamica. E ha segnato il destino della nostra. 

Il più vecchio albero italiano di cui sia certa l’età è un pino loricato che cresce in Calabria abbarbicato sul Pollino. È nato nel 1026, più giovane quindi di un suo omonimo nato nel Nord della Grecia nel 941 e considerato il più vecchio essere vivente del Mediterraneo. Il più vecchio del mondo invece è un abete rosso (un albero di Natale, per intenderci) che vive in Svezia e che nel 2008 dovrebbe aver compiuto 9550 anni. Ancorati alle radici, gli alberi non si muovono. Si procurano da soli il nutrimento grazie alla clorofilla, trasformando l’energia solare in materia organica. Non hanno un cuore, due occhi o due gambe. Possiedono tessuti in perenne condizione embrionale, pronti a dare origine a tutti gli organi necessari: se a un albero tagliano un ramo, una gemma fino ad allora dormiente sarà pronta a generarne uno nuovo. Sono virtualmente immortali. Forse per questo gli uomini, insoddisfatti della propria condizione, non hanno mai smesso di cercarli.

In quasi tutte le religioni del passato si trovano tracce più o meno evidenti della sacralità e del culto rivolto ad alcune specie di alberi. Particolarmente diffusa è poi la concezione dell’Albero cosmico, inteso come il pilastro centrale, l’asse attorno a cui ruota e su cui poggia tutto l’universo: nelle più varie tradizioni mitologiche troviamo che gli alberi costituiscono gli strumenti privilegiati per mezzo dei quali è possibile stabilire una comunicazione fra i diversi piani del cosmo (mondo sotterraneo, mondo terrestre e cielo), e una delle più diffuse forme attraverso le quali può manifestarsi la presenza divina. Partendo da queste premesse, il volume di Brosse fornisce al lettore una vastissima panoramica, che dalle cerimonie sciamaniche siberiane conduce ai culti arborei degli antichi germani, al ruolo degli alberi nel mondo greco e nell’India antica. Nell’ultimo capitolo, l’autore osserva come il trionfo del cristianesimo alla fine del mondo antico abbia determinato la scomparsa e l’estirpazione violenta dei culti arborei precedenti. Il nuovo monoteismo dogmatico e intollerante impone la venerazione di un solo albero: quello squadrato sul quale era morto il Redentore. Oggi gli uomini divengono sempre più consapevoli delle gravissime conseguenze della deforestazione e del disboscamento di gran parte del mondo abitato: in questa situazione una riflessione sull’equilibrio e l’armonia che le antiche civiltà erano riuscite a stabilire tra il mondo umano e quello vegetale si rivela di insospettata attualità e di grande importanza per la sopravvivenza stessa dell’umanità.

Questo libro è un viaggio nell’immaginario ispirato dall’universo vegetale. Un percorso tra paesi reali e fantastici, attraverso riti pagani, ebraici, cristiani, musulmani, induisti, shintoisti, taoisti e buddhisti, lungo il quale si incontrano divinità e protagonisti di favole, miti e leggende, si rievocano proverbi e usanze, si riscoprono poesie e opere d’arte. Alfredo Cattabiani ricostruisce sapientemente questo mondo verde e fiorito grazie alle sue conoscenze nel campo della fenomenologia religiosa, del simbolismo e delle tradizioni popolari, e suggerisce, pagina dopo pagina, in uno stile che sposa la chiarezza alla levità, percorsi di approfondimento per chi voglia giungere là dove una pianta non è soltanto una pianta.

Cardi e carciofi, topinambur, cavoli, pastinaca, carote, piselli, pomodori, fagioli, zucche, peperoni: quando si mangia la verdura, si inghiotte la storia del mondo. In un ortaggio si incontrano la grande Storia e la storia dei ricordi di ognuno di noi: le conquiste, la via delle spezie, l’apertura di passaggi marittimi, il commercio tra gli Imperi, l’economia, la diplomazia e la politica mescolati a racconti di madri e padri, di nonne e nonni, cucine e dispense piene di sapori. Passando da un orto a una poesia, da un quadro a un’ortolana che con la voce squillante tesse le lodi dell’insalata appena colta; da una canzone a un conquistador che trasporta nuovi germogli e condimenti nelle murate della sua caravella, l’autrice ritrova le tracce di una storia favolosa che porta il lettore di paese in paese, da una sfera simbolica a un’altra – perché le carote fanno gli occhi belli e i bambini nascono sotto i cavoli? – viaggiando nello spazio e nel tempo, dalla sfera collettiva a quella più intima. Nel libro c’è un capitolo dedicato all’Italia, alla Sicilia e ai suoi mercati da tempo meta delle vacanze e luogo del cuore dell’autrice.

“‘Il giardino che vorrei’ mi sarebbe piaciuto leggerlo all’inizio, quando ho avuto a mia disposizione un podere: ero piena d’amore e d’entusiasmo, ma le mie idee erano quanto mai vaghe. Adesso sarei pronta a ricominciare da capo, non fosse che – nel frattempo – mi sono affezionata al mio, seppure imperfetto, giardino”. Così Pia Pera racconta cosa l’ha spinta a scrivere queste pagine: accompagnare chi intraprende l’avventura con la terra considerando nove scenari possibili: acqua, sole, ombra, mare, pianura, collina, montagna, città e orto. A ciascuna evocazione di queste nove “scene primarie” segue un “dietro le quinte” dove si suggerisce come realizzare i nostri desideri botanici: che piante scegliere, come ospitarle al meglio. Sono i consigli e i punti di vista di una scrittrice che trafficando all’aria aperta ha trovato serenità e saggezza, desiderio e appagamento, spiritualità e concretezza. E l’ispirazione più potente per la sua straordinaria e sensuale produzione letteraria.

Mescolando capacità narrativa e rigore investigativo, Merlin Sheldrake ci accompagna in un viaggio alla scoperta degli organismi più misteriosi del pianeta e ci aiuta a comprendere appieno la meraviglia e l’importanza degli ecosistemi naturali di cui facciamo parte. Combinando storia della scienza e nature writing, il biologo ci guida tra gli sciamani dell’Amazzonia, i cercatori di tartufi in Piemonte e gli esponenti della controcultura e della psichedelica come Timothy Leary, spaziando dai cibi fermentati alle reti sotterranee attraverso cui gli alberi si scambiano informazioni fino alla capacità dei funghi di digerire plastica e pesticidi. Sono solo alcuni dei tasselli di un percorso affascinante che solleva domande fondamentali su cosa siano la vita, l’intelligenza e l’identità, e che ci spinge a cambiare punto di vista e osservare il mondo abbandonando uno sguardo antropocentrico. Sheldrake tratteggia un grandioso affresco di un regno della natura maestoso ma quasi invisibile, capace di mettere in discussione le nostre certezze e condurci sulle strade dell’immaginazione verso la progettazione di un futuro sostenibile grazie a tecnologie prima impensabili.

Per tutti noi l’assunzione quotidiana di caffeina coincide nientemeno che con la «condizione normale della coscienza». Eppure, quell’alcaloide naturale è a tutti gli effetti una droga, come rivela l’«esperimento di privazione» cui Michael Pollan si è sottoposto, trovandosi afflitto via via da mal di testa, letargia e «intensa angoscia». Per cercare di rispondere alla domanda cruciale da cui è partito – che cosa sia esattamente una droga –, Pollan intreccia reportage, memoir e saggio scientifico, spaziando attraverso varie discipline e concentrandosi soprattutto su tre molecole psicoattive: oltre alla caffeina, l’oppio, il cui effetto – secondo il poeta vittoriano Robert Bulwer-Lytton – è assimilabile al «sentirsi accarezzare l’anima dalla seta», e la mescalina, la più «sacra», che permise ad Aldous Huxley di vedere il mondo nella sua autentica «bellezza, minuzia, profondità e “quiddità”». Da questo affascinante percorso emerge ogni aspetto di queste sostanze, e in particolare la loro «natura bifronte»: il loro essere cioè «veleni» e «attrattori» al tempo stesso, in grado da un lato di dissuadere gli animali dal mangiare le piante che le producono, dall’altro di spingerli a utilizzarle accrescendo così la loro espansione ecologica: la caffeina contenuta nel nettare di certe piante, per esempio, rende le api impollinatrici «più affidabili, efficienti e industriose». Un’ambiguità che contraddistingue anche il millenario rapporto con le «droghe» degli esseri umani – e spiega come mai, sul piano evolutivo e culturale, «quella che era iniziata come una guerra» nei loro confronti si sia «trasformata in un matrimonio».

Dalla comparsa delle prime piante sulla Terra, milioni di anni fa, le foreste tropicali hanno giocato un ruolo chiave nell’evoluzione dell’atmosfera, dei dinosauri, dei primi mammiferi e persino della nostra specie. Per molti di noi, le foreste tropicali sono un regno lontanissimo che rimane confinato in film come Tarzan o Apocalypto e non ha nulla a che fare con la vita di tutti i giorni. Un’idea che, curiosamente, modella non solo il pensiero popolare, ma anche quello accademico. Eppure, queste fantastiche distese verdi sono capaci di influenzare la temperatura del Pianeta, formare le piogge, pulire l’aria, fornire cibo e materie prime essenziali. Presentandoci una serie di nuove e clamorose prove acquisite attraverso tecniche di ricerca all’avanguardia – dalla scansione laser dal cielo, allo studio genetico delle piante in laboratorio – l’archeologo Patrick Roberts ci dimostra che la nostra visione degli esseri umani come “specialisti della savana” è sbagliata e che, contrariamente a quanto abbiamo sempre sentito dire, le foreste tropicali non sono affatto luoghi inospitali bensì la vera culla della civiltà.

E per chiudere un libro imperdibile: Richard Powers Il sussurro del mondo (ne ho parlato in questa recensione). Libro vincitore del Premio Pulitzer 2019 per la narrativa, il romanzo è diviso in più sezioni, una struttura che s’ispira alle diverse parti che formano gli alberi: Radici, Tronco, Chioma, Semi. Gli alberi, infatti, sono i co-protagonisti del racconto, creature più grandi, più lente, più vecchie, più durature che vanno ri-scoperte, perché non sono mai state guardate sul serio, con attenzione e cura, ma più spesso viste come dei meri strumenti.