INCIPIT
A piedi scalzi
Succede sempre a chi non è abituato alle scarpe di considerarle una tortura, un’imposizione, un’ingiustizia. Abituata a stare nei campi a piedi nudi, scalpitavo, seduta sulla tavola di marmo della cucina, mentre mia mamma e la nonna – che ormai si può dire viveva in casa nostra, per aiutarci dopo “la disgrazia” – cercavano di infilarmi le scarpe per andare a scuola. Primo giorno delle elementari. Anno 1938. Stavo per compiere sei anni: ero appena tornata dalla campagna dove mi avevano mandato quando era accaduta “la disgrazia” e dove ero rimasta molto a lungo senza quasi mai vedere nessuno della mia famiglia, che pensavo mi avesse abbandonata. In quella casa veneziana, dove mi avevano riportato dopo più di due anni di lontananza, respiravo amore: tutto l’amore possibile da quei genitori travolti da vicende drammatiche ma all’improvviso “ritrovati”, dopo quella pausa che aveva interrotto bruscamente la nostra vita insieme. Io continuavo a guardarli, perché… erano diversi: il viso del papà trasformato, cancellato dalle cicatrici lasciate dal fuoco, e al posto degli occhi… due buchi inquietanti, protetti da un paio di occhiali dalle lenti smerigliate che nascondevano a malapena quei fori inesorabili. Nel ricordo vivissimo dell’ultima sera che avevo trascorso con lui a Venezia c’erano i suoi occhi neri, bellissimi e forti, che mi minacciavano amorevolmente poiché mi ritraevo schizzinosa dal cucchiaio di minestra che lui insisteva con affetto a portarmi alla bocca. Due occhi che quando ti puntavano ottenevano obbedienza senza fatica. Non sapevo, allora, che li stavo guardando per l’ultima volta. Aveva continuato fino all’ultima cucchiaiata e poi, esortato dalla mamma a non far tardi, mi aveva abbracciato. Avevo tre anni e mezzo. Ero a letto per un’influenza (che mi consentiva di usare il letto matrimoniale) e anche la mamma era febbricitante. Papà si infilò il cappotto e ci salutò con l’energia e l’allegria di sempre: poi, dopo avermi dato lo sciroppo, la mamma si mise nel lettone accanto a me. Quello che accadde in seguito segnò per sempre la vita della mia famiglia e la mia.
«La disgrazia si poteva evitare», avrei sentito ripetere per tutta la vita in casa, soprattutto dalla nonna Gina e dalla zia Mary, la sorella di mamma. «È stata il frutto della sua impulsività», ripeteva la nonna come un mantra, per rassicurarsi che ciò che era successo non fosse altro che la conseguenza di quel caratteraccio che gli era costato arresti, botte, denunce, prigione e quant’altro. «Come si può sostenere che Mussolini è un delinquente, un farabutto, contro un’intera nazione che lo applaude e lo ammira? Se vogliamo chiamarlo coraggio, il suo, è stato un coraggio da incosciente, che è costato a lui gli occhi e a tutti noi il dolore: e ha causato una tragedia, soprattutto per quella povera bambina senza futuro». Un commento ripetuto per anni, che la nonna abbandonò solo nel 1945, quando Mussolini (che tra l’altro non piaceva neppure a lei, perché lo trovava “maleducato”) venne appeso a testa in giù in piazzale Loreto. Un fatto che, presso la nonna Gina, riscattava in qualche modo le “idee” di mio padre.
Luciana Boccardi