In quel periodo mi sentivo profondamente nazionalista e tendevo a giudicare ogni persona attraverso la sua nazionalità (…) Finché un giorno conobbi una ballerina. Era nata in Giappone da genitori coreani, ma era cresciuta negli Stati Uniti e disponeva anche di un passaporto canadese. Mi raccontò di essere andata in Arabia Saudita solo per imparare la danza del ventre e di esservi rimasta per dodici anni. Ora si trovava a Parigi e, avendo sposato un francese, si considerava, anche solo per metà, una cittadina di questo paese. Finalmente un giorno, di fronte alla mia insistenza sul chiarire la vicenda della sua nazionalità in modo che io potessi regolare la mia posizione nei suoi confronti, fece spallucce e mi disse serenamente:
– Io sono io, tutto qui.
Nelle stanze della soffitta, di Tahereh Alavi, editore Francesco Brioschi 2017, ed. originale 2014, traduzione dal persiano di Roja Ebrahimi.
La protagonista – di cui non sapremo mai il nome – di questo breve romanzo suddiviso in 105 quadri narrativi, è una studentessa iraniana che vive e frequenta l’università a Parigi. In teoria, o meglio, secondo il desiderio di suo padre, dovrebbe studiare medicina; in realtà ha scelto studi letterari, in particolare letteratura per l’infanzia.
A Parigi abita in un palazzo-mondo: situato davanti al Bois de Boulogne, questo condominio di sei piani, più la sua soffitta, non ospita alcun francese; gli inquilini provengono dai luoghi più disparati. Il padrone di casa, Juan, è “uno spagnolo tirchio e smemorato”, un po’ in là con gli anni, che vive con la cagnolina Sally; c’è un imbianchino portoghese che deve ridipingere le sue stanze; c’è una ragazza indiana “alta e robusta” che a volte indossa il sari, altre jeans e maglietta; c’è il veterano del Vietnam Tony, che in quella guerra ha perso le gambe e odia il suo paese quanto, secondo lui, lo odiano gli iraniani; c’è una famiglia africana, variopinta e rumorosa, oltreché numerosa.
Lei vive in due stanze, in soffitta, insofferente a tutto ciò che riempie il palazzo, indispettita dai rumori, dal chiacchiericcio, dalla mancanza di privacy. A peggiorare la situazione, il padrone di casa le chiede di condividere le sue stanze con un “connazionale” che in realtà è un ragazzo afgano, timido, magrissimo e che si mantiene aiutando gli studenti a scrivere le loro tesi.
Ma come? Essere iraniano ed essere afgano era la stessa cosa? Monsieur Juan non capiva quel che diceva. Se essere afgano non fosse stato diverso da essere iraniano, allora essere iraniano non sarebbe stato diverso neppure da essere turco, e quindi nemmeno da essere europeo.
All’inizio del romanzo, lei ha un atteggiamento critico verso tutti; è molto condizionata dai suoi principi, dalle sue convinzioni e non riesce a fare il seppur minimo sforzo per guardare alle cose da una prospettiva diversa. Degli altri vede solo i difetti, che amplifica anziché cercare di comprendere. Tende molto a chiudersi nel suo mondo, nella sua cultura.
Gli unici luoghi di svago durante il mio soggiorno nella “culla della libertà” erano il cimitero di Père-Lachaise e la tomba di Hedayat (il padre della letteratura persiana moderna, n.d.r.), dove andavo durante le festività e nei Sizdebedar, e poi la moschea di Parigi. (…) All’inizio mi sedevo lì e guardavo i muri in attesa che qualcuno arrivasse e attaccasse bottone. Alla fine, quando mi annoiavo, approfittavo di quel tempo per recuperare le preghiere che erano rimaste indietro, e per aggiustare i conti che avevo in sospeso con Dio. Poi davo uno sguardo agli annunci di lavoro.
Per guadagnare qualcosa, accetta un lavoro di cui si vergogna, un titolo che sua madre userebbe come epiteto per offendere qualcuno. Si fa assumere come lavamorti nell’obitorio musulmano. Oltre ai sentimenti di timore e ribrezzo che questo le comporta, la sua permanenza in quel luogo, il contatto con le persone alla fine dell’esistenza, la indurrà a molte riflessioni, sul mondo ma soprattutto su se stessa.
Perché essere qualcosa è davvero faticoso, soprattutto se una volta hai creduto di esserlo e poi sei arrivata alla conclusione che sei diventata qualcosa che non vale niente.
Nonostante la sua insofferenza verso gli altri inquilini, è quella che si dà sempre da fare per aiutare gli altri, e tutti le girano intorno e si affidano a lei. Anche la convivenza con Naim, l’afgano, che all’inizio sembrava impossibile, pian piano diventa qualcosa di più tollerabile. E anche gli altri si accorgeranno di questo suo cambiamento.
Ci sono due cose che rendono sopportabile l’atto di sacrificarsi: la prima è che l’altro lo riconosca, la seconda è che esprima il suo riconoscimento.
Per lei vivere in questo palazzo è soprattutto un viaggio di maturazione, di crescita personale, un percorso dove imparerà pian piano a lasciare da parte la diffidenza, a non volere sempre giudicare gli altri secondo il suo metro e la sua cultura. Questa giovane donna e tutto l’universo di persone che condivide con lei non solo l’abitazione ma la condizione di emigrato, sradicato dal suo paese, dalla sua cultura e dalle sue tradizioni, è il paradigma della nostra società, a Parigi come a Londra o a Milano. Infatti Parigi in questo romanzo è uno sfondo del tutto neutro: anzi, gli unici luoghi che vengono evocati sono quelli legati alla sua provenienza e alla sua religione, a rimarcare il senso di estranietà e di spaesamento. Il sentirsi “a casa” sarà una conquista solo attraverso le relazioni, il loro farsi codice di aggregazione e comprensione del diverso da sé.
Si può amare tutto e tutti, oppure si può provare soltanto compassione. Io da quando ho memoria ho solo provato compassione. Ma volevo bene a Sally per davvero.
Tahereh Alavi nasce nel 1959 a Tehran, Iran. Nel 1986 si trasferisce in Francia, dove rimane per sei anni dedicandosi alla letteratura per l’infanzia. Traduce e pubblica diversi romanzi. Poi, per diverso tempo, a causa dello sfavorevole clima politico e culturale del suo paese, non pubblica nulla. Nel 2014 esce “Nelle stanze della soffitta”.
Per approfondire la letteratura iraniana attuale vi segnalo un interessante articolo uscito su Doppiozero.
Ringrazio Iula che sul suo blog aveva segnalato questo romanzo.
Link all’editore. L’incipit potete leggerlo qui.

molto interessante … nelle stanze della soffitta, un luogo magico, dove da bambina sgattaiolavo per andare a curiosare tra gli scatoloni e le valige chiuse …
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“Perché essere qualcosa è davvero faticoso, soprattutto se una volta hai creduto di esserlo e poi sei arrivata alla conclusione che sei diventata qualcosa che non vale niente.”
Molto profondo. Anch’io quotidianamente, esplorando le questioni esistenziali, cerco di approfondire questo punto.
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è un romanzo che scava in profondità: nelle proprie convinzioni, nel come si guarda agli altri, nel cercarsi
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Grazie per averlo condiviso con noi.
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E’ un libro che, grazie alla tua splendida recensione, mi incuriosisce molto
Quindi ti ringrazio infinitamente da parte mia e della compagna di mio figlio, Emma, alla quale ho girato il tuo link
Un caro saluto
Adriana
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Grazie Adriana; è un romanzo molto adatto ai giovani. E’ un percorso di scoperta di sé e di crescita personale attraverso il confronto con gli altri. Un caro saluto a te, e spero tu abbia risolto i tuoi problemi di salute
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Mi piace l’idea di questo confronto tra diversi mondi in un luogo chiuso come un condominio. E tutte queste storie. La tua presentazione mi ha incuriosito verso questa autrice che non conoscevo 🤗
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