Vorrei dirle che tutto sparisce. I mondi che ci costruiamo. Le persone. Sei una figlia della guerra. Una profuga. Se c’è qualcuno che dovrebbe saperlo, quella sei tu. Che cosa credevi? Che riguardasse gli altri? Che ci siamo lasciati tutto alle spalle? Che è qualcosa a cui possiamo sfuggire? Leggiti un libro di storia! Niente è duraturo. Tutto sparisce e il mondo diventa un’altra cosa. Questo è il tuo mondo. È il sangue che ti scorre nelle vene. Ci vorranno intere generazioni per sostituirlo. Perché migliaia di anni di guerre, rivolte e caos lascino il posto alla pace svedese. Alla stabilità svedese. (..) «Da che ho memoria, qualsiasi cosa abbia fatto parte della mia vita è sparita, sempre. E a te, per quanto a lungo tu possa vivere, succederà la stessa cosa.»

Un popolo di roccia e vento, Golnaz Hashemzadeh Bonde, Feltrinelli editore 2018, traduzione di Anna Grazia Calabrese

Il romanzo di Golnaz Hashemzadeh Bonde è una lunga riflessione, un dialogo interiore della protagonista che deve affrontare i suoi ultimi mesi di vita. Non si sa ovviamente quanti, perché le diagnosi di cancro non possono essere precise, ma certo strazianti, anche e forse più per questa terribile incertezza, nella quale non si può che rimanere in ascolto dei segnali che il proprio corpo invia, e ripensare a che ne è stato della vita, propria e di chi ha camminato a fianco, e cercare un senso, un significato profondo che aiuti ad affrontare l’attraversamento.

Nahid, la protagonista cinquantenne, si trova di fronte alla terribile diagnosi a cui si ribella con tutte le sue forze perché la vita è già stata dura con lei, ha già perso tanto del suo passato, degli affetti, e non vuole rinunciare al futuro, non vuole morire. La sua reazione è un moto d’orgoglio, anzi, di rabbia; di rabbia contro questa sentenza che la priverà di una fetta della sua vita. Quella in cui, invece, vorrebbe avere una parte, finalmente. E la sua rabbia la rende egoista, in certi momenti anche antipatica, brutale; ed è brava l’autrice a presentarla così, senza edulcorare sentimenti che invece vengono fuori in tutta la loro schiettezza.

Nahid ha di fianco sua figlia Aram, che la ama di un amore paziente e incondizionato, nonostante il passato che hanno vissuto, e nonostante il carattere di sua madre. Nei loro dialoghi sono condensati sentimenti contrastanti, in una lotta tra perdere o mantenere, tra fughe e avvicinamenti.

Nelle settimane della terapia, Nahid ritorna indietro agli anni in cui viveva a Teheran, alle lotte dei movimenti studenteschi contro il regime dello scià, e poi alla ribellione contro la rivoluzione islamica, che vira verso una supremazia del potere religioso, mentre le istanze da cui molti movimenti studenteschi erano partiti tendevano all’ideologia marxista. Arresti, torture, uccisioni: Nahid ha vissuto sulla sua pelle tutto questo, perdendo persone care, scoprendo lati di sé che, presa dal terrore di subire ciò che avviene nelle celle vicine alla sua, non sapeva di potere esprimere. Poi la paura, le condizioni insostenibili durante la guerra e la decisione, ineluttabile, di abbandonare il paese. Lei, suo marito Masood e la loro figlioletta Aram. Lasciandosi dietro tutto un mondo di affetti. Sentendosi in colpa per sempre di averlo fatto, di avere lasciato là il resto della famiglia, nonostante la convinzione che, per il bene della figlia, per poterle dare un futuro migliore, non ci fosse stata alternativa.

L’autrice di questo toccante romanzo, conosce bene tutto questo percorso, perché esattamente come Nahid, i suoi genitori fuggirono dall’Iran, portando se stessi e lei in salvo in Svezia. Ecco che, attraverso la voce di Nahid, racconta con estrema lucidità i sentimenti di chi, dopo essere passato nei campi profughi, si trova a dovere ricostruire la sua vita in un paese straniero; la povertà, la difficoltà di inserirsi nel tessuto sociale e lavorativo, la mancanza di collegamenti con la propria famiglia. La nostalgia per ciò che si è perso e non sarà più come prima. Tutto questo cammino non può lasciare indenni le persone, le ferite sono profonde e non guariranno mai del tutto. È da qui che nasce l’apparente durezza di Nahid, il suo egoismo di animale ferito a morte, nell’estremo tentativo di rimanere in vita, di pretendere una specie di risarcimento a tutti i dolori che ha già sperimentato, sapendo che non ci sarà mai.

Quando credi di aver superato il trauma di aver perso ciò che hai perso… ecco, non è vero, non hai superato un bel niente. Tutto è ancora dov’era.(…) Ciò che hai abbandonato vive insieme a te con la stessa forza della strana nuova vita a cui stai cercando di adattarti. Non sparirà mai! Tutto resta, e tutto passa alle generazioni future.

Nahid è le generazioni passate sradicate dai luoghi di nascita, che hanno vissuto sulla propria pelle la lotta e la fuga, e sua nipote è le generazioni future; una di fronte alla morte, l’altra di fronte alla vita.

Penso che mia nipote non diventerà come me. Sarà una creatura di radici, non di sabbia. Che vivrà nello stesso posto in cui è nata. Con radici che ramificano solide sotto terra. Sono stata io a crearle. Io a fare in modo che la figlia di mia figlia potesse avere al tempo stesso libertà e radici.

Golnaz-Hashemzadeh-BondeGolnaz Hashemzadeh Bonde, nata in Iran nel 1983, è fuggita in Svezia con i genitori quando era ancora bambina e vive a Stoccolma con il marito e i figli. Si è laureata alla Stockholm School of Economics, dove è stata la prima donna di seconda generazione a dirigere il prestigioso comitato studentesco dell’università, oltre a essere scelta come una dei 50 Goldman Sachs Global Leaders. Ha fondato ed è presidente di Inkludera Invest, un’organizzazione non profit che si batte per sconfiggere l’emarginazione sostenendo giovani imprenditori in campo sociale. Feltrinelli ha pubblicato Un popolo di roccia e vento (2018), il suo secondo romanzo, un caso editoriale in corso di traduzione in venticinque paesi.

Potete leggere l’incipit qui.

 

*Forugh Farrokhzad, “La strage dei fiori”, Orientexpress editore 2008