A volte di fronte a un innesto sbagliato gli sembrava di essere troppo severo, di essere lui ora il padre e di insegnare a suo padre. (..) Erano piante per una sola stagione (..) Non avevano resistito, per loro sopravvivere al tempo era contro natura. Solo la memoria riusciva a resuscitarle durante un frammento di tempo. (pag 109)

Prima che te lo dicano altri, di Marino Magliani, Chiarelettere editore 2018, pagg 350, finalista al Premio Bancarella 2019

Scopro subito le carte in tavola e dico che questo romanzo mi è piaciuto tantissimo; non me ne vogliano gli altri autori, di cui non ho ancora letto i romanzi in lizza – quindi potrei ricredermi? – ma se dovesse vincere il romanzo di Magliani ne sarò felice perché di sicuro sarebbe una vittoria meritatissima. Il suo è un gran bel romanzo, di quelli veri, scritti dal cuore più che per assecondare logiche di mercato; un libro in cui l’autore si sente e lo stile è una cifra unica, a lui e solo a lui riconducibile, non uno dei tanti – ben scritti, per carità – ma che si assomigliano tutti. L’autore racconta il suo mondo, quello dove è nato, e le persone che lo popolano, le belle e brutte abitudini, i caratteri spigolosi, la natura aspra di un entroterra ligure che nel romanzo sono presenze palpitanti, vere e, nel loro essere così specifiche, riescono ad assumere connotati di universalità perché alla base di tutta la storia c’è la riflessione sulla ricerca del proprio senso di esistere, delle proprie radici e degli innesti che ci hanno fatto diventare ciò che siamo.

Dove mancavano completamente i segni era evidente che si trattava di innesti prenatali, qualcosa di magico, non avvenuto esternamente sul tronco attraverso una proiezione a gemma o a corona. Nessun destino a vita iniziata, ma una barbatella di vite interrata accanto al piede del vitigno, ben prima della luce e della coscienza di essere, e allora sapere cosa s’era stati era impossibile. (pag 110)

terrazzamenti con ulivi

Il romanzo si svolge su due piani temporali; uno nel passato – la lontana e mitica estate del 1974 – e uno nel presente – un presente futuro, il 2024. Conosciamo subito Leo Vialetti, un bambino paffutello e malinconico, solitario, che, in seconda elementare, è stato rimandato in italiano perché non riesce a distinguere la lingua dal dialetto. Come si usa nei piccoli centri, ognuno ha il suo soprannome, che in genere indica la filiazione; Leo è “sensa paie”, senza padre, anche se, tra gli abitanti, circolano voci e supposizioni sulla paternità. Nell’estate mitica del ’74 avviene l’incontro che segnerà tutta la sua vita con l’italo-argentino Raul Porti (Raulporti, come lo chiamano in paese), proprietario di una villa (in realtà si tratta di una casa di compagna, detta così solo perché si trova al di fuori del paese e con un po’ di terreno intorno) e disposto a dargli delle ripetizioni per aiutarlo a superare l’esame di riparazione. Tra i due si stabilisce uno stretto legame, e passano insieme tutti i pomeriggi: Raul non gli insegna solo l’italiano (gli infiniti tronchi…), ma gli fa fare ginnastica per buttar giù la pancetta, lo porta al mare, gli regala un paio di scarpe da teni, gli mostra come fare gli innesti. Così come innesta le piante, Raul innesta una nuova vita nel ragazzino, un germoglio che da quell’estate indimenticabile, continuerà a vivere, un po’ all’insaputa di Leo, che continua a farsi domande, quando Raul sarà partito, per capire il senso di ciò che gli sta intorno e per rapportarsi alla madre, povera di manifestazioni affettuose perché risucchiata dal duro lavoro agricolo, e reticente fino ad un certo momento, nel quale svelerà a Leo il nome di suo padre.

Raul Porti, alla fine dell’estate del ’74, chiude la villa e parte per tornare in Argentina, dove si occupa di compra-vendite immobiliari per conto di una società italiana. Nel 2024 Leo è un cinquantenne, schivo e dai modi bruschi, fa lavori in campagna e partecipa alle battute di caccia (di bracconaggio); qualche bevuta con gli amici, poche e fugaci avventure con le donne. Nella sua vita c’è spazio per poco altro che non sia la campagna palpitante e il ricordo di Raul, ricordo che va a saturare tutti quei vuoti esistenziali che l’essere cresciuto senza padre hanno scavato il solco della malinconia in Leo, fino a generare una sorta di ossessione-dipendenza nei confronti di Raul di cui, ormai da decenni, si sono perse le tracce e che molti ritengono morto, uno dei tanti desaparecidos sotto il regime di Videla. Leo sente quasi un debito d’onore nei confronti di Raul e, pur di salvare la villa, decide di vendere un terreno per poterla acquistare all’asta e ristrutturare; ma non basta. Leo deve e vuole partire per l’Argentina, per mettersi sulle tracce di Raul e scoprire se sia davvero morto.

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Photo credits: Mako Tour

La prima parte del romanzo è tutta ambientata nell’entroterra ligure della provincia di Imperia, descritto in modo realistico, denso di particolari, e, alle stesso tempo, poetico, nella lingua brusca di Leo, che quelle valli e colline le conosce metro per metro da sempre, da quando non ci passava nessuno e le case intorno al carruggio erano poche, a quando, dopo il Duemila, sono iniziate le speculazioni: multi-proprietà tirate su da società straniere, dichiarate dapprima abusive e poi sanate, casolari trasformati in ville con piscina, fino ad “impestare” tutta la valle di russi (in realtà di stranieri di varie provenienze, ma Leo e gli abitanti li chiamano i russi) e di cinghiali. Anche Leo vende il suo terreno ad una straniera, l’olandese Christel con cui trascorre qualche giornata e sulla quale si concede qualche illusione di intimità. Le descrizioni del paesaggio e delle tecniche di caccia (crude, ve lo dico), le scene della vita di Leo e i suoi pensieri scorrono come un unico corso d’acqua, miscelando la concretezza delle cose alla levità delle riflessioni sul senso della vita.

 

 

Lincoln Delegación_MunicipalNella seconda parte, ci troviamo in Argentina, sulle tracce di Raul. Attraversata “la pozzanghera”, “el charco” – come gli argentini chiamano l’oceano -, Leo impara che Liguria e Argentina in fondo si rispecchiano l’una nell’altra, così come italiano e spagnolo si fondono nel lunfardo parlato dai tanos*, che a Leo suona quasi facile e familiare. Perché anche questa lingua nasce da un innesto, così come lui, e come lui è un ibrido. Con la sua semplicità e grazie all’arte di sapersi arrangiare, Leo si innesta facilmente a Buenos Aires e si imbarca in una avventura densa di colpi di scena. Deve imparare a destreggiarsi con la lingua, deve capire come non farsi truffare da chi si occupa di ricerche di desaparecidos. Soprattutto, deve imparare a gestire la sete di informazioni e la sua ansia di giustizia. L’avventura argentina produce un’accelerazione nel ritmo della narrazione, che, vi assicuro, incolla il lettore al libro: Magliani è bravissimo a fare correre velocemente il racconto, senza essere precipitoso nello svelare gli accadimenti, regalando al lettore tutto il gusto di conquistare pagina dopo pagina l’epilogo.

Ho cercato di non svelare troppo la trama – e di questo sono certa mi ringrazierete – ma, in conclusione, vorrei dire della scrittura di Magliani. Il romanzo è per questo aspetto, unico e singolare, riuscendo a mescolare registri linguistici distanti tra loro in un unicum armonico e scorrevole: vi troviamo il gergo dialettale, la lingua popolare, così come il linguaggio colto. Spesso ci si imbatte in descrizioni dense di metafore e caratterizzate da un lirismo che innalza anche gli aspetti più umili e prosaici della vita quotidiana e campestre. Con la capacità di modulare ogni segmento, come ad esempio avviene nelle lettere scritte da Leo che sono volutamente sgrammaticate e piene di errori, mentre quelle di Raul sono corrette e di tono alto, Magliani porta a compimento un romanzo paragonabile ai grandi capolavori della letteratura italiana. Poi, leggetelo e fatemi sapere se vi è piaciuto.

Non piangeva, mai pianto in vita sua, neanche da bambino, quando vecchi e coetanei gliela menavano, neanche allora, o quando era morta lei, ma ultimamente, in Argentina, sì, a volte gli veniva da piangere per un nulla, o cercava un motivo di quelli lontani, certe cose che allora non lo facevano piangere e ora sì, l’aria di Buenos Aires e il ricordo della madre quando andavano a innaffiare la sera e lo vedeva serio, impalato a guardare la polvere delle pietraie nell’aria azzurra, e gli chiedeva se aveva la malinconia e lui rispondeva di sì, aveva la malinconia, non sapeva cosa fosse, ma col tempo aveva imparato che quella cosa lì che aveva era la malinconia, e aveva imparato ad accettarla, come si accetta il tempo o il fatto di non avere un padre. Senza pianti, perché non si piange per le cose che si accettano. Ma ultimamente era tutto così strano, e tutte le cose che nella vita aveva accettato ora lo facevano piangere e allora non le accettava più. (pag 187)

*Più di metà della popolazione argentina ha origine italiane. Poiché molti dei primi emigrati erano campani o napoletani, per antonomasia tutti coloro che hanno origini italiane sono appellati tanos (abbreviazione di napolitanos).

Qui potete leggere l’incipit.