Essendo venuto fin lì da Trieste a caccia di una domanda, Akron giudicò che non doveva sorprendersi se le domande, dalla notte precedente, avevano preso a fioccare sulla sua cuffia di lana come la neve di gennaio sull’isola. Ne aveva in testa troppe, di domande, era vero: e per di più sorgevano da ogni angolo del mondo su cui posasse lo sguardo (..) Troppe domande, apparentemente prive di un legame abbastanza forte l’una con l’altra perché potessero convergere verso l’illuminante eclissi di una risposta comune. (pag. 82)

Eclissi, di Ezio Sinigaglia, Nutrimenti editore 2016, pagg. 107

 

Eclissi è un romanzo breve, come numero di pagine, ma la sua intensità è tale, da far sì che, nella lettura, si dilati. Saranno le incantevoli descrizioni del luogo in cui è ambientato e le suggestioni che evocano, saranno i dialoghi in una lingua buffa (l’italiano di un’anziana signora americana), sarà il peso che il protagonista si porta sulle spalle, o, più probabilmente, il combinarsi di tutto ciò, ma, una volta finito, vi sembrerà impossibile di avere letto centosette pagine.

Norvegia 2

Protagonista è Eugenio Akron, architetto triestino settantenne, che decide di compiere l’ultimo vero viaggio della sua vita prima che la vecchiaia incomba, di recarsi cioè su un’isola costruita sul basalto, nel Mare di Norvegia, per assistere ad uno spettacolo naturale: un’eclissi totale di Sole durante l’equinozio di primavera. Non è un appassionato del genere, questa è la sua prima eclissi; e, allora cosa lo spinge a fare questa esperienza? In realtà il suo è un viaggio in cerca di una domanda; la domanda giusta che riesca a sciogliere tutti nodi che si sono sovrapposti col passare degli anni. Perché per trovare vere risposte, bisogna chiedersi le domande giuste e poi tutto viene da sé. Il suo viaggio è dunque la ricerca di quella domanda che permetta un bilancio esistenziale, che permetta, cioè, di fare pace con le inquietudini, recenti e remote, che tengono ancora in sospeso il conto con la propria storia personale. Un eclissi che produca un’epifania. Il passaggio dalla luce al buio e dal buio alla luce, che sfocia in una catarsi.

Eugenio, vedovo da tre anni e incapace di arrendersi alla perdita dell’amata moglie e amica, si reca sull’isola qualche giorno prima del fenomeno; alloggia in una pensione dove ha modo di conoscere il carattere delle persone del luogo e i loro cibi. Con una certa ruvidezza, soprattutto linguistica, ma anche tanta capacità di essere accoglienti, gli isolani riescono a mettere Eugenio a suo agio. È proprio nella locanda che conosce Clara Margaret Wilson, una simpatica ottantenne di Boston, Massachussetts, cacciatrice seriale di eclissi, alla sua diciassettesima esperienza; la sua prima indelebilmente associata all’Italia, nel lontano 1961, a Roma.

Dal punto di vista linguistico, l’incontro con l’arzilla signora americana, produce un effetto accattivante; i due decidono di adottare un patto per parlarsi. Lei si esprimerà nel suo (esilarante) italiano, e lui nel suo (corretto ma minimal) inglese; a ciò si aggiungono i dialoghi interiori di Eugenio, un patchwork di italiano e triestino, e l’inglese “pietroso” dei locali. Un mashup linguistico che crea movimento e ironia, in un certo senso alleggerendo l’atmosfera seria dei pensieri che come nuvoloni si addensano su Eugenio.

Pensieri che, stimolati da Clara e dalla sua passione per le eclissi e per il cielo stellato, riemergono dal passato remoto, evocando un volto amato e importante nella vita di Eugenio; un turbamento che emerge in tutta la sua dirompente forza e che dovrà riuscire a defluire in domande che, come un fiume impetuoso, lo trascineranno davanti alla verità.

Di questo romanzo colpisce subito l’incipit, e non è un caso:

In più di un’occasione ho lasciato capire che l’incipit di Eclissi, “Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce”, appeso lassù in cima alla prima pagina come un esergo, è anche una dichiarazione d’intenti, una promessa fatta al lettore più attento, o viceversa un monito rivolto a quello più frettoloso e meno disposto all’avventura. In questo senso, dunque, il progetto di Akron, il protagonista, coincide con il progetto dell’autore, ed è quindi lecito ipotizzare che non si tratti di un progetto isolato, ma che per l’autore scrivere voglia dire proprio questo: tuffarsi nelle tenebre per sfruttare la sorprendente potenza che una flebile luce può assumere quando è circondata dall’oscurità più totale. (Tratto dalla “conversazione” su Nazione Indiana.)

Ancor più sorprendente l’explicit, di cui ovviamente non vi posso dare indizi; magari ci potremmo confrontare a posteriori, senza svelare troppo…..

Come dicevo, le pagine di questo libro hanno un peso specifico molto alto; ogni pagina trattiene il lettore come tirandolo per la giacca, e non si fa fatica a soffermarsi, a rileggere passi; anzi, se ne sente l’esigenza continuamente, perché la meraviglia della costruzione stilistica è tanta, e ogni frase rivela e stupisce, dà concretezza ad un frammento d’immagine che, sommato a quelle che vengono prima e dopo, offrono una visione in HD dei luoghi che gli occhi – e la mente – di Eugenio incontrano e abitano, e che il lettore, di rimando, esperisce.

E dunque l’isola stessa prende una forma, racconta una storia, esplode in suoni di cormorani e fragori di onde; si nasconde in brume mattutine e si rivela sotto squarci di cielo inaspettati. La sua conformazione dà corpo al carattere degli abitanti, così come la metafora della storia della cattedrale. Ma leggiamo queste righe:

Akron pensò che il carattere dell’isola era dato da quel basalto scuro e duro, che offriva a tutto la sua base solida, la sua reticenza cromatica contro la quale ogni colore era splendente, la sua ottusità incrollabile, così legata al basso e al vile, ma nelle cui cavità nidificavano gli uccelli. Si domandò per un istante perché questi basalti neri e forti, eroici e muti, lo incantassero come uno specchio e, insieme, lo impaurissero e schiacciassero come un karma. (pag. 61)

Viaggio fisico e nella memoria, ricerca della luce che illumini gli angoli bui della memoria – e della coscienza; ecco perché Eugenio cerca l’eclissi, cioè quel fenomeno capace di nascondere ciò che è visibile e mostrare ciò che è nascosto. È intorno a questo che veleggia il romanzo di Ezio Sinigaglia, cercando una rivelazione che è come una teoria già presente ma celata da un velo che solo un’epifania può far cadere.

 

Basalto
foto credits: tripadvisor

 

Ezio Sinigaglia è nato a Milano nel 1948. Ha svolto diversi mestieri, tutti legati alla scrittura: redattore, traduttore, fotocompositore, copywriter, ghostwriter, autore di guide turistiche e, da ultimo, docente di scrittura all’Università di Milano Bicocca e in altre sedi. Dopo Il Pantarèi (1985), ha continuato a coltivare in privato la sua voce narrativa, mentre quella saggistica ha occasionalmente trovato la via della pubblicazione, e ha tradotto alcuni libri dal francese.
Dopo trent’anni dal suo esordio, Nutrimenti ha dato alle stampe un suo nuovo romanzo, Eclissi (2016), che a febbraio 2020 è risultato vincitore del concorso Modus Legendi.
Nel 2019 la casa editrice TerraRossa ha ripubblicato Il Pantarèi e nel 2020 ha fatto uscire L’imitazion del vero, candidato al Premio Strega.

Per Nutrimenti ha anche tradotto i racconti di Julien Green, LeviatanoFabienUna vita qualunque e La bella provinciale, pubblicati nei volumi Viaggiatore in terra (2015) e Vertigine (2017).

 

A questo link potete leggere una interessante ed esaustiva intervista con Giovanni Turi.

Vi consiglio anche questa conversazione pubblicata su Nazione Indiana, da cui ho estratto la citazione sopra.