Un nido. Composto di reti in acciaio galvanizzato da due millimetri di spessore, venticinquemila abbeveratoi, un muschio di piume e becchime. Dieci chilometri di mangiatoie che corrono su e giù in righe e colonne. Una serie di piani sfalsati sovrapposti fino a tre metri d’altezza a formare la lettera A, simbolo universale della montagna. Travi di legno, passerelle di compensato. Il buio. Poi di colpo la luce. Trecentomila occhi preistorici che si aprono confusi. L’intero impianto che ronza e ticchetta e sferraglia come un ingranaggio apocalittico. E sopra il brusio, il ciangottio, il canto di centocinquantamila uccelli all’alba.
Capannone N.8, di Deb Olin Unferth, Edizioni Sur 2021, Collana BigSur, traduzione di Silvia Manzio, pagg. 358
Lo strabiliante romanzo di Unferth non è “solo” un romanzo sui diritti degli animali e sulle innaturali condizioni in cui vengono allevati e sfruttati massivamente ai fini di lucrosi profitti. E non è “solo” una favola visionaria. È questo, e molto di più. In molta parte del libro gli animali stessi sono secondi a molte delle vere motivazioni dei personaggi, tra cui la più forte è l’amore per qualcuno – o per qualcosa: una causa, un ideale – così resistente da spingere a fare le azioni più folli; così appagante da trasformarsi in nostalgia quando viene meno nelle loro tormentate vite e relazioni. Il modo in cui la storia è narrata – con dovizia di particolari sul funzionamento degli allevamenti e sulle attività in copertura degli animalisti, così come sulle vite dei tanti personaggi che a turno fanno sentire la loro voce – la rende una lettura godibile per tutti, sia ai paladini della difesa degli animali, sia agli amanti della narrativa tradizionale. I personaggi umani e quelli animali sono costruiti con grande empatia, con uno sguardo attento e profondo, che dà voce a ciascuno di loro, lascia che siano loro stessi ad aggiungere ognuno il suo punto di vista, sì, anche gli animali, vedrete. È una storia che, con intelligente ironia e una sana dose di realismo, racconta l’errore, quello dell’uomo che crede di possedere altri esseri viventi, di potere essere padrone dei destini, di poterli manipolare, che siano quelli del mondo animale o quelli degli altri esseri umani con cui entra in contatto.
Quali di questi polli ci assomiglia di più? Quelli che vagano in ellissi – noi nel cortile della scuola, nel campus, nel quartiere – o i mostri geneticamente modificati – noi che ci agitiamo nei cubicoli, stringiamo pezzi di plastica e metallo, ci strizziamo nelle nostre scarpe eleganti, ci urliamo addosso in spazi angusti, tocchiamo dispositivi che roteano o si accendono o si aprono simulando attività come «divertimento», «ginnastica», «lavoro», «amore»? (pag. 130)
Unferth ha svolto diverse ricerche (molte delle quali confluirono nel suo articolo “Cage Wars” su Harper’s Magazine nel 2014) che l’hanno portata all’interno dei grandi impianti di allevamento massivo in cui ha potuto vedere con i suoi occhi le condizioni barbare in cui sono tenute le galline; molto di questo materiale è alla base delle precise e strazianti descrizioni che si trovano nel romanzo.

Janey, il primo personaggio che incontriamo, è appena scesa da un autobus che da New York l’ha portata nel sud dell’Iowa, “una regione triste e grigia fatta di aree di servizio, carceri sovraffollate e monocolture”, per conoscere suo padre, di cui ha appreso l’esistenza per la prima volta nel suo recente quindicesimo compleanno. È testarda, decisa a rimanere ad ogni costo: vuole fargliela pagare per averla ignorata piazzandosi a casa sua per un po’, ma il dubbio di avere fatto la cosa giusta inizia a insinuarsi appena mette piede in quel luogo. Se all’inizio la convivenza tra loro sembra destinata a fallire (“era un energumeno bianchiccio alla Fred Flinstone … un personaggio da museo, talmente obsoleto da risultare quasi futuristico”), alla fine si stabilisce una specie di equilibrio e Janey rimane davvero, tagliando i contatti con la madre, a cui non perdona il fatto di averle nascosto la verità sulle sue origini. Mentre è lì, però, accade la più destabilizzante delle situazioni e Janey si ritrova bloccata nel sud dell’Iowa, e deve adattarsi a vivere in quell’appartamento spoglio, con un uomo che è quasi uno sconosciuto, nemmeno tanto interessato a stabilire un rapporto con lei. Si iscrive di malavoglia alla scuola superiore locale.
Per i primi anni Janey era talmente abbattuta dal lutto e dal senso di colpa e dall’impressione di non avere scelta che non poteva uscire dal suo stato di stordimento senza esplodere. (..) Fu la consapevolezza del suo errore, che la spinse a sviluppare il gioco, o quello che era soprattutto un gioco. Pensava alla vecchia Janey, l’originale. (pag. 28)
Janey continua la sua vita reale in Iowa, in una scuola che detesta e che lascia subito dopo la maturità; decide di non andare all’università e si trova un lavoro in un centro logistico, dove in breve viene licenziata. Intanto, continua ad immaginare la “vecchia” Janey, come sarebbe stata la sua vita se fosse ancora a New York, quali sarebbero state le sue scelte, la strada che avrebbe intrapreso. Vive divisa a metà tra ciò che è e ciò che avrebbe potuto essere, fin quando il padre le procura un colloquio nella stessa azienda in cui lavora, un enorme allevamento avicolo.
A riceverla è Cleveland, responsabile delle ispezioni degli allevamenti di galline ovaiole di tutto l’Iowa; la madre di Janey, Olive, era stata la sua babysitter e il ricordo della sua brillante personalità è ancora forte nel suo cuore. Cleveland assume Janey con il compito di seguirla nelle ispezioni negli immensi capannoni dove centinaia di migliaia di galline sono allevate in batteria e in condizioni di sfruttamento senza scrupoli.
Tra le due si stabilisce subito un legame tenuto insieme dal ricordo di Olive: Cleveland si sente vicina alla figlia in cui a tratti riconosce la personalità della madre, e allo stesso modo, Janey percepisce quanto sia stata forte l’influenza di Olive su Cleveland, a cui spesso sente dire frasi che sua madre stessa pronunciava. Sono una coppia unita dal destino, all’inizio, ma il loro sodalizio verrà rafforzato dalle loro scelte e dal loro progetto condiviso. All’inizio è Cleveland che per prima “preleva” una gallina che era riuscita ad evadere da un allevamento:
Un capannone così: centocinquanta metri di lunghezza, praticamente un campo da football e mezzo (..) un’unica struttura che si riempiva e si svuotava di quaranta milioni d’uova all’anno (..) il più altro numero di uova per gallina nella storia del pianeta. (pag. 41)
Bwwaauk, è il nome del pennuto; si, avete capito bene, Unferth ci spiega che tutti gli uccelli
«sono noti a sé stessi e agli altri con un determinato cinguettio – in altre parole con un nome». Di più, «in natura le galline hanno combriccole complicate e voci distinte. Comunicano tra loro ancor prima che l’uovo si schiuda. (..) Hanno più di trenta categorie di conversazione, tutte con il proprio intreccio di gloglottii, strilli, zirli e gorgheggi». (pag. 209)
Il destino dei polli risale molto indietro, fino alla preistoria, e l’autrice spiega l’evoluzione storica degli esemplari dal Gallus – l’uccello selvatico antenato del pollo – nell’Eocene, al Gallus gallus domesticus suo discendente, fino alle specie addomesticate e catalogate dei nostri giorni.
Dopo il primo “prelievo”, Cleveland e Janey vanno avanti a sottrarre le galline a due, tre alla volta e le lasciano sulla porta di un santuario animalista; ovviamente si tratta di azioni che potrebbero essere punite, ma questo non le scoraggia, anzi, in barba alla legge bavaglio che vieta la registrazione di filmati all’interno degli allevamenti, le due proseguono a documentare i maltrattamenti a cui le povere galline sono sottoposte.
Janey è «una ragazza piena di talenti. Retorica, logica, disobbedienza civile»; Cleveland ha dalla sua «obbedienza alle regole e la risolutezza dittatoriale. E anche la memoria. Ma tra i suoi talenti c’era anche quello di andare dritta all’obiettivo». Dopo avere prelevato un tot di galline, Janey inizia a pensare in grande e concepisce l’idea di un piano grandioso, visionario, una liberazione in massa… un milione di galline ovaiole da liberare da uno – non scelto a caso – degli allevamenti, la Fattoria Felice della famiglia Green (avete notato i nomi?).
Fu allora che lo vide. Il Vero Progetto, una rivelazione (..) prendiamole tutte. (pag.80)
Per attuare un (utopistico?) piano del genere c’è però bisogno di un consistente aiuto. Cleveland si rivolge a Dill, un attivista della prima ora che per anni aveva coordinato un cospicuo gruppo di investigatori sotto copertura che si spacciavano per operatori degli allevamenti, mentre con telecamere nascoste, filmavano gli abusi. Dill è il primo anello della catena, ha un grande ascendente sugli attivisti, ma per riunire una squadra all’altezza del compito, serve il carisma di Annabelle. Annabelle Green, la figlia ribelle e animalista del fondatore della fattoria, sorella di Rob, attuale gestore, nonché moglie di Jonathan Jarman, figlio di un altro allevatore che ha voltato le spalle alla famiglia.
Lei e Dill convocano tutti gli attivisti che conoscono, tra i quali gli amici di vecchia data, come Zeta; e queste persone, a loro volta, porteranno alla causa altri loro amici, fino a formare un piccolo esercito pronto a correre i rischi che l’attuazione di un piano del genere comporta. Si tratta di animalisti di vecchia data, quasi dei sovversivi negli anni Ottanta e Novanta, “la vecchia guardia”, operativa nei sabotaggi agli allevamenti, nell’infiltrarsi sotto copertura, idealisti che avevano creduto nella causa ma che erano rimasti delusi; alla fine si erano ottenute concessioni minime, di facciata, aveva vinto l’industria avicola. «Ormai più che una rivoluzione l’animalismo era un capitalismo con la coscienza», è l’amara conclusione. Eppure, nonostante il disincanto, sono disposti a seguire la chiamata di Annabelle, ognuno per i suoi motivi, ma, ancora una volta disposti a dare una mano.
La tensione comincia a salire man mano che i preparativi vanno avanti; l’incalzare delle attività, i rapporti che si riallacciano o di disfano, le domande sulle possibilità di riuscita, fanno decollare il passo del romanzo e da quel momento in poi, non si riesce a staccarsi fino alla fine. Perché non si può smettere prima di avere saputo che fine faranno le galline. E gli umani che le volevano liberare.
Il romanzo di Unferth è una lettura davvero molto godibile, non aspettatevi una tirata filosofico-animalista di denuncia, un manifesto politico – cioè, lo è, ma attraverso forme ed espressioni narrative, che si concretizzano in una storia tragi-comica ad effetto. È una storia coinvolgente che scorre via in modo fluido grazie al suo assetto polifonico, alle tante e diverse voci che vivacizzano e ritmano la narrazione e allo spirito avventuroso dell’impresa che viene progettata, nonché al suo esito. Un romanzo che ha in sé tante componenti: la formazione di Janey che da quindicenne arrabbiata e spaesata, diventa un’adulta consapevole pur rimanendo una sognatrice; la complessa rete di relazioni affettive tra le coppie che salgono in scena; una lucida e chiara descrizione degli allevamenti di animali e dell’impegno di chi li vuole contrastare; uno sguardo senza pregiudizi verso gli attivisti, colti in tutta la loro fragile umanità, ma pur sempre animati da un ideale; un romanzo che pone una severa questione etica rispetto a come siamo disposti a considerare le creature che abitano con noi il mondo: sono merci da sfruttare o individui da rispettare?
Io e Dill dicevamo sempre che quello di cui il mondo aveva bisogno erano zone di arretramento umano (..) permettendo alla natura di andare avanti senza di noi. Riconquista, la chiamavamo. Ma ora so che non succederà. L’unica cosa che gli umani sono disposti a fare è distruggere. Dovranno essere costretti ad andarsene. E nessuno può costringerli – non gli altri animali, e nemmeno la natura. Ma non ce ne sarà bisogno. Ci penseranno da soli. E il momento in cui se ne andranno? Sarà un’opportunità. (pag. 222)
Deb Olin Unferth (Chicago, 1968) è autrice di due romanzi, due raccolte di racconti, un graphic novel e un memoir, Revolution (sulla sua fuga giovanile da un college americano al Nicaragua della rivoluzione sandinista), finalista al National Book Critics Circle Award. Ha pubblicato su Granta, McSweeney’s, The Believer, The Paris Review; insegna all’Università del Texas ed è la fondatrice e direttrice di Pen-City Writers, un master in scrittura creativa per detenuti in un carcere di massima sicurezza del Texas. Capannone n. 8 è il suo primo libro pubblicato in Italia.
Sullo stesso tema, interessantissimo (e scioccante) anche “Se niente importa” di Jonathan Safran Foer
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Non l’ho ancora letto, grazie del suggerimento!
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Imperdibile, direi.
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Assolutamente non solo da leggere, anche perchè il nostro corpo è cosciente del cambiamento, in senso negativo, che interno fa crescere i mostri, nell’origine e nel contesto della “malattia.”
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Anche a me è piaciuto molto.
Nonostante ci siano tante trame e tanti personaggi è scorrevole ed appassionante.
Bello bello!
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Si, è molto coinvolgente, col giusto mix di elementi ed emozioni.
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