Un nido. Composto di reti in acciaio galvanizzato da due millimetri di spessore, venticinquemila abbeveratoi, un muschio di piume e becchime. Dieci chilometri di mangiatoie che corrono su e giù in righe e colonne. Una serie di piani sfalsati sovrapposti fino a tre metri d’altezza a formare la lettera A, simbolo universale della montagna. Travi di legno, passerelle di compensato. Il buio. Poi di colpo la luce. Trecentomila occhi preistorici che si aprono confusi. L’intero impianto che ronza e ticchetta e sferraglia come un ingranaggio apocalittico. E sopra il brusio, il ciangottio, il canto di centocinquantamila uccelli all’alba.
Capannone N.8, di Deb Olin Unferth, Edizioni Sur 2021, Collana BigSur, traduzione di Silvia Manzio, pagg. 358, la mia recensione
Quali di questi polli ci assomiglia di più? Quelli che vagano in ellissi – noi nel cortile della scuola, nel campus, nel quartiere – o i mostri geneticamente modificati – noi che ci agitiamo nei cubicoli, stringiamo pezzi di plastica e metallo, ci strizziamo nelle nostre scarpe eleganti, ci urliamo addosso in spazi angusti, tocchiamo dispositivi che roteano o si accendono o si aprono simulando attività come «divertimento», «ginnastica», «lavoro», «amore»? (pag. 130)

Per i primi anni Janey era talmente abbattuta dal lutto e dal senso di colpa e dall’impressione di non avere scelta che non poteva uscire dal suo stato di stordimento senza esplodere. (..) Fu la consapevolezza del suo errore, che la spinse a sviluppare il gioco, o quello che era soprattutto un gioco. Pensava alla vecchia Janey, l’originale. (pag. 28)