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RIPROPONGO UNA RECENSIONE DI QUALCHE TEMPO FA. UN ROMANZO CHE MI ERA PIACIUTO MOLTO E VORREI CONSIGLIARVI

Il fine settimana scorso l’ho passato al Book Pride e sono tornata a casa con dei libri che mi sono stati raccomandati dagli editori agli stand.

“Nessuno scompare davvero” di Catherine Lacey, edito da Sur, nella collana Bigsur, è uno di questi. Ha attirato la mia attenzione immediatamente per la sua bellissima copertina: tre disegni dello stesso volto, quello di una giovane donna. Nel primo riquadro lei sembra addormentata, in modo sereno e rilassato, anche se una strisciolina d’acqua alla base spunta quasi inosservata; nel secondo l’acqua è salita e nell’ultimo i capelli fluttuano in mezzo alle bollicine d’aria e il volto, rimasto con la stessa espressione, è totalmente sommerso dall’acqua. Se una copertina ti deve suggerire qualcosa del contenuto, ho pensato che questa fosse una storia legata allo sprofondare in un mare che inghiottisce, che anche se cerchi di rimanere impassibile, ti porta giù, ti risucchia.

berryman

Come mia abitudine, ho letto il risvolto; poi, sfogliando le prime pagine, mi sono trovata sotto gli occhi una poesia di John Berryman, presa da “Dream songs” che è il suo capolavoro. Lo conoscevo ai tempi dell’università, era il poeta preferito dalla mia docente di Letteratura Anglo-americana – uno dei principali esponenti della poesia confessionale, insieme a Sylvia Plath – che gli aveva dedicato un bellissimo seminario. La prima cosa che mi è tornata in mente di lui era il fantasma del suicidio del padre che lo aveva perseguitato per tutta la vita e che aveva trovato sfogo nei versi del suo capolavoro.

Il mio sguardo ha scorso la poesia e si è fermato sugli ultimi versi:

“Ne è certo: ha pensato a tutti, e non manca

nessuno.

Spesso, all’alba, li riconta.

Non scompare mai nessuno”.

“Nobody is ever missingnell’originale: il titolo del romanzo.

Naturalmente la sua apparizione in testa al libro non è casuale e lo si capisce bene alla fine della lettura.

Poi ho letto le prime due pagine – che sono il primo capitolo – e ho deciso che sì, lo avrei comprato e l’avrei letto. E così ho fatto, dritta sul romanzo, senza leggere recensioni e commenti. Come se l’autrice lo avesse scritto per me.

E nelle pagine di questo romanzo ho trovato anche una parte di me, quella che forse abbiamo in comune tutti, quel “bufalo” rintanato nel profondo della nostra coscienza, più o meno quieto, quell’animale (ah, caro Battiato…) che ci fa prendere delle strade che non avevamo previsto, che ci fa prendere decisioni e scelte senza volerlo, o senza sapere di avere pensato di poterle prendere. Mi sono trovata faccia a faccia con quell’istinto che ti fa compiere delle azioni che sai benissimo di non dover fare e che se le fai potresti incappare in conseguenze devastanti, e se provi a domandarti perché le fai comunque, non sai trovare una risposta. Perché, forse, una risposta non c’è.

“anch’io sarei fuggita se fossi stata una pecora invece che me stessa, e anzi alcune mattine, pur essendo me stessa, vorrei comunque essere una cosa che fugge lontano da me piuttosto che quella cosa cucita dentro di me per sempre.”

new zel

Nessuno scompare davvero” è una fuga. Una fuga che all’inizio spiazza: Elyria, la protagonista che parla in prima persona, si mette uno zaino in spalla e senza dirlo a nessuno, prende un aereo per la Nuova Zelanda. Biglietto di sola andata. Ha in mano un foglietto con un nome, un poeta che ha conosciuto per caso e che le ha detto la più banale delle frasi: se passi dalle mie parti, vieni da me.

Elyria sembra fuggire da una normale vita agiata: una bella casa, un lavoro per una rete televisiva, un marito docente universitario. Ma via via che il flusso della narrazione – un flusso che assume sempre più i connotati di un fiume in piena – ci allontana da questa apparente assenza di problemi, il mondo di Elyria assomiglia sempre più ad un labirinto di specchi. Un labirinto che ad ogni specchio le rimanda ricordi negativi, esperienze dolorose.

Il primo tassello che non combacia nel mosaico della sua vita è il rapporto con la madre; una madre che ha scelto per lei il nome di una città dell’Ohio dove non ha mai messo piede, una donna anaffettiva, che in ogni scena appare sempre sbronza, insoddisfatta del rapporto inesistente col marito – presenza assenza -, alla ricerca di una maternità che non riesce a vivere, nemmeno con l’adozione di un’altra bambina, coetanea di Elyria. Ruby, la bambina geniale, superdotata, che diverrà la preferita dalla madre. La ragazza che tutti ammirano per le sue capacità e che però si toglierà la vita. Una madre che rinfaccerà ad Elyria di avere sposato un uomo a cui è legata esclusivamente dal ricordo della sorella morta.

Il marito di Elyria, infatti, è il professore universitario di cui Ruby era l’assistente: è l’ultima persona a vederla viva e che non capisce cosa sta per compiere. Si conoscono al commissariato, dove vengono chiamati a testimoniare. Proprio in quel luogo lui confida ad Elyria che anche sua madre aveva compiuto quel gesto e queste due morti continueranno ad aleggiare sul loro matrimonio.

“A volte mi veniva da pensare che il dolore emanato da mio marito fosse penetrato nel sangue di Ruby rivoltandolo contro sé stessa, che in qualche modo fosse colpa sua se Ruby aveva aperto la zanzariera nel bagno delle donne e si era spinta in aria, ma dentro di me lo sapevo (forse senza sapere di saperlo) che lei a quella decisione ci era arrivata da sola, anche se ogni tanto immaginavo che mio marito avesse emesso un segnale. (…) Mio marito sapeva che aspetto aveva una donna prima di scaraventarsi da questo mondo e conosceva Ruby prima che si scaraventasse da questo mondo, e io non riuscirò mai a separare queste due cose”.

Ecco che allora diventa sempre più evidente che il marito non abbia superato né la perdita della madre, né quella di Ruby, così come è evidente che sono i rimorsi a tormentarlo e ciò si sfoga nei suoi ripetuti tentativi inconsci (?) di strangolare durante il sonno Elyria.

“Io ero il tipo di persona (o lo eravamo entrambi, e forse lo siamo tuttora) che non riesce mai a sottrarsi davvero ai propri lutti, il tipo di persona che non ha capito come funziona quel trucco che a molti altri sembra venire facile: come far scomparire il senso della perdita, come sbrogliarlo dalla testa.”

 Eppure all’inizio del loro stare insieme Elyria si era sentita in armonia con se stessa:

“io diventai una persona in grado di provare emozioni autentiche, aperte, ben integrata, in gamba, un’impiegata affidabile, una donna capace di entrare in un bar e ordinare un panino e mangiarlo mentre legge il giornale, (…) perché allora non ero la spettatrice di me stessa, ero proprio me stessa, una persona piuttosto che l’approssimazione di una persona”.

Ma Elyria ha dentro di sé qualcosa che si è rotto, qualcosa che è andato in mille pezzi e anche se in alcuni momenti ha pensato di poterli riattaccare insieme, ciò non è avvenuto.

“il fatto è che nessuno può salvare nessuno e non so cos’è che ci salva, cosa ci rende delle brave persone, cosa ci tiene ancorati a quel lato dell’essere umano che dà un senso alle cose piuttosto che al lato irragionevole, malsano, al bufalo impazzito che ognuno si porta dentro; perché quel bufalo ce l’abbiamo tutti e nel cervello di ogni essere umano c’è una parte insofferente che non ce la fa ad andare avanti”

All’inizio stare con suo marito la distolse dal suo bufalo: fare le cose che normalmente una coppia fa, avere una vita normale di lavoro e distrazioni, frequentare altre persone. Ma poi il bufalo ha ripreso il sopravvento, ha costretto Elyria a guardare in faccia la sua realtà.

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Elyria parte per stare sola con se stessa, per cercare di ritrovarsi; il suo è un viaggio fatto in autostop in un Paese lontano migliaia di chilometri, estraneo al suo modo di vivere, un’esperienza “on the road” che la porta a conoscere persone e luoghi, a fermarsi per qualche tempo con qualcuno per poi rimettersi in viaggio. È una crepa troppo profonda quella che si è aperta dentro di lei: là si annida il suo mal di vivere e ogni volta che prova a risalire, scivola di nuovo e tutto ciò che sembrava avere acquisito un senso, un attimo dopo lo ha perso di nuovo.

“la mia oscurità non è munita di interruttore, perché la mia oscurità è il cielo sulla savana in una notte senza luna e senza stelle e i miei bufali galoppano a rotta di collo con la loro furia ottusa”

“Siamo tutti eventi di lunga durata e niente più, e io sapevo di non essere una donna ma una serie di azioni, non una vita ma un fremito”

Potete leggere l’incipit qui

Questo è il romanzo d’esordio di Catherine Lacey, classe 1985: se il buongiorno si vede dal mattino….

Nessuno scompare davvero

Qui sotto copio il link di una intervista dell’autrice che risponde a domande sul romanzo:

http://www.letteratura.rai.it/articoli/catherine-lacey-cercando-di-stare-da-sola/33771/default.aspx

Vi rimando alla mia recensione del romanzo “Mrs Bridge” che Elyria legge durante il suo viaggio in Nuova Zelanda, come lo aveva letto l’autrice durante il suo viaggio in quel Paese