L’estate del Sessantanove. Cronache ungheresi, di Andrea Rényi, Infinito Edizioni 2021, Introduzione a cura di Patrizia Rinaldi, pagg. 112
Sarà in libreria nei prossimi giorni il memoir della scrittrice e – ben nota – traduttrice Andrea Rényi. Il libro appartiene ad un genere che io amo molto: le cronache familiari di persone comuni che vivono in presa diretta gli avvenimenti che hanno fatto la storia del loro paese. A volte inconsapevoli protagonisti di eventi che cambiano le sorti del mondo, altre provando a farne parte attivamente puntando sulla coerenza, e molto spesso stravolgendo la propria vita, perdendo gli affetti più cari e ritrovandosi poi a ricordare ciò che è accaduto come un ineluttabile disegno in cui si è stati costretti ad avere un ruolo.
Ciò che rende questo libro speciale è la capacità di raccontare in modo sobrio ma coinvolgente le vite di persone reali, con le loro speranze, gli affanni, le gioie, e, allo stesso tempo, di comporre il clima di un’epoca, senza retorica né volendo prendere posizione. Semmai, ponendo l’accento sulle pratiche di mutuo soccorso e di solidarietà per resistere ai tempi più bui, sottoposti ad un regime che fondava la sua forza sull’oppressione e sulla delazione, ritenuta una pratica lodevole.
La disillusione nella realizzazione del comunismo, maturata da Kázmér e Angéla già alla fine degli anni Quaranta, si tramutò in spavento. Avevano saputo dei processi farsa, dei soprusi; avevano sperimentato il fanatismo in varie forme, come la denuncia per le unghie smaltate di rosso di Angéla fatta dalla professoressa Hajdú Gimes. Ma quella volta la repressione aveva colpito persone conosciute e lo aveva fatto con una ferocia ingiustificabile. Poiché fra le sue mansioni anche Kázmér aveva a che fare con la mensa, si insinuo pure il pensiero che uno dei due medici sarebbe potuto essere lui. (pag 42-43)
La narrazione si focalizza sull’arco temporale che copre gli anni dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta, con accenni agli anni precedenti nel ricostruire le storie familiari, partendo dall’amicizia di due bambine e andando a ritroso a raccontare le storie delle loro famiglie e delle persone con cui hanno avuto rapporti. Ecco allora che seguiamo le vite di Kázmér e Angéla, la loro gioventù, gli studi e poi le professioni, medico lui, disegnatrice di ceramiche lei; il loro matrimonio, la nascita della figlia e le mille traversie per superare gli anni difficili, dal dopoguerra, passando per il regime comunista, l’insurrezione del 1956 di studenti e operai a Budapest, il ritorno di una dittatura ancora più spietata e oppressiva, con l’inevitabile quesito emigrare o rimanere, il perdurare dell’antisemitismo, la scarsezza di beni anche di prima necessità, il doversi adattare a condizioni di vita disagiate, fino ad un timido ritorno alla normalità.
Nonostante le difficoltà, quello che emerge è la grande dignità dei protagonisti, la loro fede nel bene della cultura e nei legami familiari come nelle amicizie.
La narrazione segue un ordine cronologico che viene scandito, ad ogni inizio capitolo, da una fitta rete di citazioni prese delle maggiori scrittrici e dei maggiori scrittori e intellettuali di un paese dalla forte impronta letteraria e artistica – pensiamo alla musica – in generale. Una raccolta di citazioni che già da sola riesce ad impreziosire il libro come se fossero delle gemme incastonate in un’opera di fine costruzione. Immergendosi in questi spunti, il lettore può costruirsi una mappa culturale per approfondire la conoscenza delle personalità di spicco della letteratura ungherese. Nel libro si fa anche riferimento a tanti intellettuali, come ad esempio la militare e poetessa Hanna Szenes:
ebrea nata a Budapest ed emigrata ventenne in Palestina, oggi è considerata eroina nazionale in Israele. Insieme ad altri, nel 1944 si fece paracadutare dall’esercito britannico in Jugoslavia per allacciare i rapporti con la resistenza di Tito e per offrire aiuto agli ebrei ungheresi destinati alla Shoah. Fu catturata dalla Gestapo il 7 giugno e portata alla prigione di Margit körút; poi, alla formazione del governo nazista ungherese di Ferenc Szálasi passò sotto la giurisdizione ungherese che la condannò a morte. Hanna Szenes non presentò domanda di grazia e rifiutò di essere bendata al momento della fucilazione, il 7 novembre 1944. La sua poesia “Camminata a Cesarea” è stata messa in musica e con il titolo di “Eli Eli” fa parte della colonna sonora di Schindler’s List, il celebre film di Steven Spielberg. (pag.63)
Oppure quando Kázmér scambia il suo appartamento in coabitazione con uno di tre stanze solo per loro, con un giornalista, allora anonimo, ma destinato a divenire famoso:
Quel giornalista, pubblicista e librettista pieno di curiosità, di una stravagante voglia di vivere e dal sorriso aspro era Imre Kertész, il futuro e per ora unico premio Nobel ungherese per la Letteratura.
Dall’unione di Kázmér e Angéla nasce Güzü, una bambina della generazione Ratkó, cioè quella figlia delle leggi per incentivare la crescita demografica – a est come a ovest – dopo le gravi perdite dei conflitti mondiali. Il nome viene da Anna Ratkó, operaia tessile e attivista sindacale comunista, prima donna della storia ungherese a divenire ministro, nella fattispecie della Sanità.
Dopo circa un anno dalla nascita della bimba, a Kázmér viene offerto il posto di primario internista a Budapest, quindi nel 1953 lasciano Pécs e si trasferiscono nella capitale. Trovano casa in una bella villa degli anni Quaranta, sulla Collina delle Rose, in un appartamento in coabitazione con un’altra coppia con due bambine. Tutti hanno un passato alle spalle, più o meno doloroso – alcuni sono ebrei scampati alla shoa ma che hanno perso i loro affetti più cari – però si preferisce non parlare del passato; il fatto di avere sperimentato gli orrori della guerra è un destino comune che crea uno spirito di solidarietà e la voglia di lasciarsi tutto alle spalle, provando a ripartire accettando quello la vita può ancora offrire.
Nel dopoguerra erano frequenti le famiglie rappezzate, nate sulle rovine del conflitto e dei duri anni successivi, e di solito funzionavano persino meglio delle classiche famiglie alle prime nozze, con uno o più figli arrivati insieme. (pag 48)
Seguendo il racconto ci si immerge anche nella città e, via via, si apprendono i fatti che avvennero in quegli anni, come ad esempio il destino di circa tremila esponenti della sinistra socialista e comunista che avevano trovato la morte fra il 1919 e il 1945 all’interno delle mura della prigione di Mártirok útja (Viale dei Martiri), oggi Margit körút (oggi Corso Margherita), la via in cui Kázmér e Angéla andranno ad abitare.
Ripercorrendo la storia di Angela veniamo a conoscenza anche del legame di amicizia con Gabi, un legame lungo una vita. Gabi e Angela si conobbero alla scuola superiore. Gabi si laurea in Architettura; all’inizio degli anni ‘60 si dedica alla ceramica. Nel 1962 vince una borsa di studio a Faenza. Angela intanto, dopo avere lavorato come ceramista da casa, entra nella catena di gallerie d’arte che vendevano anche gli oggetti decorati dall’amica. Gabi era la tipica donna emancipata, nubile per scelta, riesce a comprarsi l’auto, un Maggiolino. Gabi amava Güzü, a cui faceva sempre regali e dava libri da leggere.
L’apice dell’amicizia fra le due donne fu raggiunto con il loro viaggio in Italia. Una domenica di metà settembre del 1972, dopo aver affidato Muki e Belli (i cani) e le rispettive case a Güzü, ventenne, le due ungheresi di mezz’età, una zitella, perché all’epoca il termine single non era ancora in uso, e una vedova, che insieme non masticavano una parola d’italiano, si sistemarono nell’abitacolo della Volkswagen Maggiolino di Gabi. (pag.85)
Insomma, come avrete capito, una lunga storia di amicizie e resilienza, di ostinata fiducia nella vita e nella capacità del genere umano di sopravvivere anche alle tragedie più grandi, mantenendo intatta la dignità; una storia che si addentra nel racconto particolare che è però espressione di una generazione intera, sopravvissuta alle mille intemperie di anni densi di accadimenti epocali. Amicizia come bene che passa di generazione in generazione, insieme alla fiducia nella capacità di emancipazione operata dalla cultura, fino ad arrivare a Güzü, che stringe un rapporto duraturo con “Anna, la bambina con i boccoli neri e il sorriso aperto che Güzü prese a chiamare Berci“. Un’altra amicizia al femminile, che nasce sui banchi di scuola, si cementa nei campi di lavoro estivo che gli studenti delle superiori e universitari erano tenuti a svolgere, per passare attraverso la voglia di cambiamento ispirata dai moti studenteschi del Sessantotto, ad ovest come ad est.
Güzü aveva sedici anni, nel 1968, e credeva ancora nei valori del socialismo che nell’Ungheria di János Kádár la scuola impartiva loro. Non era più la fanatica di un tempo, la quattordicenne che due anni prima aveva risposto con un no sdegnoso all’invito di suo padre di accompagnarlo in Francia.
Il viaggio in Polonia e i fatti della Cecoslovacchia cominciano ad istillare dei dubbi anche nella granitica Güzü. Una ragazza che si apre alla vita, forte dell’eredità morale ricevuta dai genitori e fiduciosa nelle proprie capacità per ottenere ciò che desidera.
Andrea Rényi è cresciuta a Budapest in una famiglia multilingue e si è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Per molti anni ha insegnato lingue e ha fatto l’interprete, per molti altri ha lavorato come traduttrice e corrispondente in lingue prima in un’impresa, poi in un’agenzia letteraria. Negli ultimi dodici anni ha tradotto venticinque titoli ungheresi di narrativa e saggistica per l’editoria italiana, in collaborazione con le case editrici Anfora, Atmosphere Libri, BCD, Bompiani, Dedalo, Einaudi, Elliot, Fazi, Giuntina, Il Melangolo, Keller, nottetempo, Rizzoli, Salani, Voland e Zandonai.