Con grande piacere, oggi vi presento due libri in catalogo alla C.E. Infinito Edizioni di Formigine (Modena), nella nuova collana “Mansarda”, diretta da Anita Vuco.
Conosco da qualche anno Anita Vuco come bravissima traduttrice dal serbo-croato: è grazie alla sua mediazione e ai suoi consigli che ho potuto leggere alcuni dei più bei romanzi di autori contemporanei dell’area balcanica (li trovate in questo post). Vuco, che è anche autrice e poetessa, ha presentato gli obiettivi della nuova collana:
Mansarda è una collana che vuole far sentire nel senso più ampio del termine la diversità di voci letterarie balcaniche e dei paesi limitrofi, inclusi quelli del Mediterraneo orientale.
Ideata da chi crede che la bibliodiversità, unita alla qualità dei testi, sia quel criterio indispensabile per la creazione di un catalogo capace a prestare la dovuta attenzione agli autori contemporanei, senza perdere di vista i classici, Mansarda sceglie il singolo autore per il suo valore letterario e umano, non per una semplice panoramica, ed è di conseguenza aperta a tutti i generi senza alcun limite, purché questo tipo di alchimia esista.
Mansarda si assume il compito di risvegliare un maggiore interesse nei confronti di letterature cui spetta un posto importante nel patrimonio culturale europeo. In altre parole: “Tutti noi potremmo essere comprensibili per il resto del mondo” –, metteva in rilievo Danilo Kiš nell’intervista Značaj dobrog i odanog čitaoca (I meriti di un lettore buono e fedele), del 1983 – “se soltanto la nostra letteratura riuscisse a presentarsi con una buona selezione, in modo comunitario, come un’entità centro europea e slava. Così come, in primo luogo, si è presentata all’Europa degli inizi del secolo, la letteratura nordica, o come poco tempo addietro fece quella sudamericana, con il suo felice esordio. Il che significa – presentando ciò che in esse vi è di meglio.”
Mansarda è, non a caso, il titolo del primo libro scritto da Danilo Kiš tra il 1959 e il 1960, e pubblicato nel 1962, una sorta di biografia intellettuale e sentimentale dell’autore, in cui ogni sera il povero studente di letteratura mondiale, tra tanti libri preziosi, sceglie quei pochi volumi che riuscirà a mettere in salvo dai topi, proteggendoli con una campana di vetro. Potrà mai un percorso di sensibilizzazione e traduzione considerarsi anche lontanamente sufficiente? Quanto potrà essere grande la campana di vetro?
Nella lingua serbo-croata di Danilo Kiš sono naturalmente incastonate parole ed espressioni dell’ungherese, spesso utilizzato per i suoi appunti personali: “Ecco ad esempio la parola kőkènyszemű: questa parola ha significato soltanto in ungherese e sarebbe inutile ogni sforzo di tradurla in serbo.” Come ribadisce anche Viktorija Radič, nel suo caso non si tratta di una fedeltà da cliché: “Essa persisterà in lui nonostante il fatto che per tutta la vita gli rimarrà impresso il fascismo ungherese, e i sei anni trascorsi in Ungheria costituiranno un ricordo traumatico delle umiliazioni subite. Ma Kiš, tutto ciò non ha portato all’odio, bensì all’amore per la lingua e la cultura ungherese. Si devono, infatti, a lui molte interpretazioni poetiche di Ady, Radnóti, Attila József. Il fatto stesso che questa collana si apra proprio con Il mese dei Gemelli e alcune poesie scelte di Miklós Radnóti, diventa perciò metafora dell’inseparabile legame tra letteratura e vita.
Veniamo ai volumi.

Il mese dei gemelli, di Miklós Radnóti, traduzione e prefazione di Andrea Rényi, Infinito edizioni collana Mansarda 2021, pagg. 96
Il libro si apre con una dettagliata e vivida prefazione di Andrea Rényi (qui potete leggere la mia recensione al suo romanzo) per presentare ai lettori il poeta e traduttore Miklós Radnóti, una delle figure determinanti della poesia ungherese del ventesimo secolo.
Il mese dei gemelli, in Ungheria alla diciottesima edizione dalla sua prima pubblicazione (1940), è l’unica opera in prosa di Miklós Radnóti. Tradotto in una decina di lingue, questo breve diario atipico è la storia della perdita dei genitori e del divenire poeta. Con una prosa poetica, dalle ascendenze proustiane, Radnóti sovrappone spazi temporali in un flusso di coscienza lirico e ironico e dà voce al senso di pericolo costante dovuto all’avvicinarsi della seconda guerra mondiale e al presentimento della propria morte. La sua sorte e la sua opera testimoniano la capacità di resistenza umana e artistica nei confronti di quella barbarie che è stata la Shoah. La sua voce rappresenta l’ultima, tragica protesta dell’arte vera anche nell’inferno dei campi di concentramento.
Il volume comprende una selezione di poesie tradotte nel 1995 dalla coppia di poeti e traduttori italo-ungheresi Marinka Dallos e Gianni Toti. Questi versi (riportati nella presente edizione con testo originale a fronte) raccolgono i temi chiave della poetica di Miklós Radnóti. Tra di essi, l’amore, l’«unione armoniosa fatta di naturale tenerezza, di rispetto reciproco e di intesa erotica”» (dalla prefazione di Andrea Rényi; p. 8) incarnata dalla relazione con l’amatissima moglie Fanni; la morte; la vicinanza con i poeti vittime di barbarie.
DIARIO D’UOMO
Sulla cima dei miei giorni siedo, e ne oscillano
i miei piedi, una nuvola di neve
mi leva il cappello, e le mie parole
di quassù, tra penne di gallo
alzando la polvere, marciano.
Dicono che albeggia al fondo dei fossati,
e sotto le erbe spiano
luccicanti grilli, e il letto delle pozzanghere
bevute dal sole si entusiasma
dietro i passi risuonanti.
Forse verrà la tempesta perché
l’acqua increspata si fa liscia portando i pesci,
e il silenzio allarga le gambe
sopra la strada e con rumori di battaglia
si prepara a menare le mani.

Il paziente della stanza 19, di Zoran Žmirić, traduzione e prefazione di Anita Vuco, Infinito edizioni collana Mansarda, 2021, pagg. 208
Anita Vuco, nella interessantissima prefazione al libro, traccia con grande lucidità il concetto di azione politica nelle scelte che ciascuno di noi fa ogni giorno; quelle scelte che possono apparire neutre ma che in realtà non lo sono affatto, perché, in definitiva, ogni azione è politica. E lo sono le scelte che lei stessa ha fatto e fa – che lingue studiare, dove vivere, perché tradurre… – e che portano alla consapevolezza di ciò che si vuole dare come contributo alla cultura, un contributo personale e non omologato agli stereotipi o agli standard votati alla omologazione del pensiero. Ed è proprio da queste considerazioni che nasce la scelta di tradurre questo libro.
Traduco libri come Il paziente della stanza 19 di Zoran Žmirić perché non banalizzano la guerra. Perché la voce narrante del trentottenne Vanja (non per caso un nome usato sia per maschi che per femmine), un veterano tornato da quell’incubo, non cerca di discolparsi agli occhi del lettore, assumendosi piena
Prefazione, Anita Vuco
responsabilità per gli atti compiuti. Perché per assurdo proprio lui che ha le mani sporche di sangue si dimostra allo stesso tempo un eccezionale antibellicista. Perché dal momento in cui si trova a dover spiegare a uno psichiatra quali sono le motivazioni sottostanti al suo autolesionismo, muove un’intelligente accusa contro i nazionalismi di ogni tipo.
Vanja Kovačević, paziente della stanza 19, inizia il suo monologo narrativo davanti allo psichiatra rievocando il suo diciannovesimo compleanno, il giorno in cui come regalo gli misero in mano un fucile, per toccare molti punti chiave della sua infanzia, della crescita, della guerra, della paternità, della sopravvivenza e delle uccisioni. Ed è proprio quel contrasto tra le terrificanti confessioni del Vanja soldato e i teneri ricordi del Vanja dei tempi pre-bellici a mettere in evidenza un intero universo di possibilità che gli sono state tolte per sempre. Come in una sorta di macchina del tempo, Vanja ripercorre quella stessa vita che è cosciente di non poter mai più riavere. Questo dolore di una giovinezza rubata lamentata dal paziente è considerato da molti tra le pagine più struggenti della letteratura croata contemporanea.
UN CENTIMETRO PER CIASCUNO
Diciannove persone per diciannove anni di vita. Diciannove necrologi affissi su diciannove muri, recinti, portoni e pali della luce nelle città che mai visiterò. Diciannove necrologi che mai leggerò.
Diciannove buchi dentro me stesso che da quel giorno sto cercando di riempire.
Ho spento le persone come se fossero delle candele. Poi ho tolto loro i vestiti, quasi stessi scartando i regali. Con fare altero e senza pietà. Ed è facile, molto più facile di quanto non lo è cantare a squarciagola dopo un paio di birre.
Non me la sono cavata senza dover pagare un conto salato anche io. Un proiettile ha saputo come trovarmi. (Pag.13)