E io? Parlo, e scrivo, e sogno in italiano. Man mano che gli anni passano, mi sembra sempre più che le parole della lingua che per i nostri genitori è nostra siano granelli di sabbia che mi scivolano via dalle dita di una mano mentre, con le dita dell’altro, pesco le parole dell’italiano. (..) E così quei granelli scivolano via, quasi inavvertitamente, e ce ne sono sempre di meno. Che l’unica causa di quella riduzione sia il fatto che io e Braco non andiamo più in Bosnia? (pag 74)

La giraffa in sala d’attesa, di Božidar Stanišić, Bottega Errante edizioni 2019, traduzione di Alice Parmeggiani, pagg. 353, la mia recensione

Fino a ora non ho registrato che loro due non citavano mai i nomi dei signori della guerra, come qualcuno li ha chiamati, in Bosnia e in altre parti del paese che non c’è più sulla carta d’Europa. Né i loro nomi, né quelli dei loro più stretti collaboratori. «Appena penso a loro, mi viene subito da vomitare …» disse mia madre in un’occasione. Questo spiega tutto? Ma neppure Tito citavano, né il tempo dell’utopia comunista, come qualcuno la chiamava. «C’è stato, adesso è passato. Ha cercato di lasciarci in eredità un modo di vivere e di lavorare, ma gli eredi hanno litigato, in massa. Il testamento è spesso causa di estraniazione fra i parenti più prossimi…» disse mio padre in un’altra occasione. (pag. 261)

Mostar, Bosnia

INCIPIT

Notte, ottobre. «Ti porto il pigiama, figlia mia?». Taccio. Mia madre pensa forse che la sua voce premurosa non mi sia arrivata? Eppure siamo così vicine, lei a un capo, io all’altro del divano del soggiorno. Ripete la domanda e aggiunge che è più comodo starsene così, come lei, in camicia da notte. Si è avvolta in un pullover che conosco bene. Ah, proprio in quello, come se non ce ne fossero altri! «In questa casa» dice mia madre «ci sono ancora i tuoi vestiti, le tue scarpe, i libri, i quaderni di scuola. E anche il flauto, e il tuo walkman, per non fare tutto un elenco di varie altre cose!». Il walkman – lei lo ha tenuto da conto, mentre io me ne ero completamente dimenticata. «Niente, Valentina, proprio niente è stato portato in garage o in soffitta. Neanche le cose di Braco, sai. Là ci sono i suoi vestiti e le scarpe, tutto bene in ordine. Se arrivasse qui all’improvviso, troverebbe tutto al suo posto!». La sua voce si è fatta tremante, commossa. Per l’orgoglio di aver custodito le nostre cose o per l’emozione al solo nominare suo figlio? Con la mano indica verso l’alto, in apparenza disinvolta: lassù, di sopra, c’è la camera di Braco. Ripete un’altra volta lo stesso gesto, ma più deciso. E poi di nuovo, come se si esercitasse, se mai, per caso, stasera davvero si facesse vivo anche suo figlio. In tal modo, senza parlare, gli mostrerebbe dove sono le sue cose. E Braco getterebbe un’occhiata pro forma all’armadio e subito mormorerebbe il suo solito ah, mamma-mamma, fai sempre tutto a modo tuo? Se frugasse tra la sua roba, di sicuro troverebbe anche il suo walkman. Ma tacerebbe, anche se di solito non tralascia l’occasione di dire che non sopporta gli oggetti calpestati dal tempo?