«Affanculo l’arte», disse. «Davvero, Michael. Affanculo l’arte, d’accordo? Non è buffo che abbiamo continuato a inseguirla per tutta la vita? Morendo dalla voglia di entrare in intimità con chiunque sembrasse comprenderla, come se questo potesse esserci di aiuto; senza mai indugiare a chiederci se non fosse irrimediabilmente fuori dalla nostra portata… o se addirittura non esistesse. Perché eccoti un concetto interessante: e se l’arte non esistesse?» Lui ci pensò su, o meglio assunse un’aria grave per dare a vedere che ci stava pensando su, tenendo il proprio bicchiere ben fermo sul tavolo. «Ecco, no, mi dispiace, cara», cominciò, accorgendosi subito che avrebbe fatto meglio a eliminare quel cara dalla frase, «su questo non posso essere d’accordo con te. Se mai pensassi che non esiste allora dovrei… non lo so. Farmi saltare le cervella, o qualcosa del genere». (pag. 505-506)
Il vento selvaggio che passa, di Richard Yates, minimum fax 2020, titolo originale Young hearts crying, traduzione di Andreina Lombardi Bom, pagg. 508, la mia recensione

INCIPIT
A ventitré anni, Michael Davenport aveva ormai imparato a fidarsi del proprio scetticismo. Leggende o miti di ogni tipo finivano per spazientirlo, perfino quelli che in genere vengono presi per buoni; ciò che voleva, sempre, era capire come stavano veramente le cose. Era diventato maggiorenne come mitragliere di bordo su un aereo B-17, verso la fine della guerra in Europa, e una delle cose che gli erano piaciute di meno dellAeronautica militare era il suo programma di pubbliche relazioni. Tutti credevano che l’Aeronautica fosse la branca più fortunata e felice delle forze armate – i suoi uomini erano nutriti, alloggiati e pagati meglio di chiunque altro, godevano di una maggiore libertà personale, ricevevano indumenti di buona qualità da indossare in maniera «informale». Inoltre era chiaro a tutti che nell’Aeronautica non ci si dava la pena di osservare le minuzie della disciplina militare: le ore di volo, l’audacia e lo spirito di corpo contavano più del cieco rispetto per i gradi; ufficiali e truppa potevano fraternizzare tra loro, se ne avevano voglia, e perfino il saluto regolamentare eseguito da loro diventava una breve parodia ritorta e buttata lì con nonchalance. Correva voce che i soldati delle forze di terra li chiamassero, con invidia, «i ragazzi volanti». E tutto questo era probabilmente abbastanza innocuo, non valeva la pena di litigarci su; però Michael Davenport avrebbe sempre ricordato che gli anni da lui trascorsi nell’Aeronautica erano stati mortificanti, tediosi e deprimenti, che ogni volta che aveva preso parte ai combattimenti ci era mancato poco che morisse di paura, e che alla fine era stato arcicontento di tirarsi fuori da quella faccenda schifosa.