Un giorno, a un tratto, la libertà si fermò. Non aveva più voglia di camminare. Se ne infischiava di quelli che l’aspettavano, mancava all’appuntamento senza un motivo, come fanno gli innamorati già un po’ stanchi.

L’Agnese va a morire è un romanzo neorealista scritto da Renata Viganò, di ispirazione autobiografica, giacché l’autrice fu, con il marito, una partigiana della resistenza italiana. Insieme a Il sentiero dei nidi di ragno, sono i due primi romanzi sulla Resistenza che ho letto, al tempo delle scuole medie. Lasciarono nella mia coscienza un segno marcato, un primo agglomerato di domande, di cui iniziai e tempestare i miei due nonni, uno partigiano, l’altro deportato dai tedeschi e miracolosamente riuscito a fuggire dal convoglio diretto in Germania.

La storia è ambientata nelle Valli di Comacchio durante la seconda guerra mondiale, nel periodo degli otto mesi precedenti alla liberazione dell’Italia dagli occupanti tedeschi. La protagonista è Agnese, una lavandaia di mezz’età, che colpita dalla morte del marito deportato, pur non essendosi mai prima interessata di politica, inizia a collaborare con i partigiani come staffetta di collegamento.

Mi dispiace che non posso dirvi che ora era, e nemmeno il giorno che è morto. Non so neppure, con quel buio maledetto, se fosse sera o mattina o notte. Ma sono sicuro che non si è accorto di niente, non ha fatto fatica a morire -. Si arrestò un momento ed aggiunse: – Facemmo più fatica noi a stare al mondo.

Nel delta del Po emiliano, la lavandaia Agnese vive con il marito Palita, un uomo reso debole da una malattia avuta da bambino, che lo costringe a stare in casa senza compiere sforzi fisici: il suo unico lavoro è intrecciare ceste di vimini. Questa situazione costringe Agnese a lavorare il doppio per mantenere se stessa ed il marito. Palita, per quanto debole, è tuttavia un uomo politicamente impegnato, un comunista.

Un giorno Palita viene catturato dai nazisti, i motivi erano due: forse perché in contatto con i partigiani, o a causa di una soffiata dei vicini di casa, in quanto la sera prima aveva ospitato un disertore italiano.

Qualche giorno dopo la cattura di Palita, la donna viene a sapere della morte del marito attraverso un suo amico. L’Agnese, quindi, rimane sola con l’unica compagnia della gatta di Palita, tutto ciò che le resta di lui, e comincia a nutrire un odio profondo nei confronti dei nazisti, sostenuti, invece, dalla vicina di casa e dalle sue figlie che amoreggiano coi soldati nemici. Una sera Kurt, un tedesco, spara, ubriaco, alla gatta di Palita, ammazzandola. L’Agnese, sconvolta, lo colpisce in testa col suo stesso fucile, uccidendolo, e fugge nascondendosi presso una famiglia di partigiani.

Da questo momento Agnese diventa l’organizzatrice delle staffette, e la “mamma” della compagnia partigiana.

Proprio quando gli alleati inglesi stanno per prendere il sopravvento sui tedeschi, Agnese viene trattenuta dai soldati tedeschi e, riconosciuta dal maresciallo superiore di Kurt, viene uccisa. Della donna non rimane che “un mucchio di stracci sulla neve”.

«L’Agnese va a morire è una delle opere letterarie piú limpide e convincenti che siano uscite dall’esperienza storica e umana della Resistenza. Un documento prezioso per far capire che cosa è stata la Resistenza […]. Piú esamino la struttura letteraria di questo romanzo e piú la trovo straordinaria. Tutto è sorretto e animato da un’unica volontà, da un’unica presenza, da un unico personaggio […]. Si ha la sensazione, leggendo, che le Valli di Comacchio, la Romagna, la guerra lontana degli eserciti a poco a poco si riempiano della presenza sempre piú grande, titanica di questa donna. Come se tedeschi e alleati fossero presenze sfocate di un dramma fuori del tempo e tutto si compisse invece all’interno di Agnese, come se lei sola potesse sobbarcarsi il peso, anzi la fatica della guerra […]»

Sebastiano Vassalli

La storiografia non aveva dato molta importanza al ruolo della donna nella guerra di Liberazione, nell’immediato dopoguerra. Negli anni successivi alla fine della lotta, sia la narrativa sia la storiografia raccontavano e studiavano la lotta armata in termini completamente maschili e il ruolo della donna veniva ignorato. Solo negli anni Settanta, grazie ad una congiuntura particolare tra le giovani storiche femministe e le protagoniste, la storiografia cominciò a dare importanza all’attività femminile nella Resistenza e a registrare storie, episodi che avevano le donne come protagoniste. Questo cambiamento radicale è dovuto allo sforzo di varie storiche e anche di alcune protagoniste della guerra, come Ada Gobetti.

I documenti e le ricerche hanno provato che le donne, oltre alla partecipazione diretta ai combattimenti in varie regioni italiane, fecero parte anche di altre attività legate alla Resistenza, come la partecipazione politica, le azioni di fornitura per i combattenti, le manifestazioni e tante altre forme legate in maniera indiretta alle azioni militari (vedi questo articolo). La critica, infatti, ha parlato in tempi più recenti di “resistenza civile” per distinguere le innumerevoli attività svolte dalle donne durante la guerra di Liberazione. La narrativa della Resistenza risentì di questo mancato riconoscimento del ruolo femminile nell’immediato dopoguerra. Poche, infatti, furono, rispetto agli uomini, le donne che riuscirono a trasmettere la loro diretta esperienza durante la guerra in opere letterarie. Su questo argomento, vi consiglio la lettura di questo articolo che approfondisce le cause e le conseguenze di questo fenomeno; da esso o tratto molte riflessioni qui inserite.

In questo quadro di emarginazione della presenza femminile nella Resistenza che dominò nella storiografia e nella letteratura del dopoguerra, un’eccezione è rappresentata da Renata Viganò. La scrittrice emiliana fu una delle poche donne che riuscirono nell’immediato dopoguerra ad inserirsi negli ambienti letterari italiani, imponendosi come abile scrittrice e autentica testimone della lotta partigiana. Renata Viganò, nata nel 1900 a Bologna, aveva interrotto gli studi per le difficoltà economiche della famiglia e lavorato come infermiera. Nel 1933 aveva pubblicato il romanzo Il lume spento, ma a darle grande notorietà è la sua opera più ambiziosa, L’Agnese va a morire. In seguito ha scritto saggi sulla condizione femminile e sull’attiva partecipazione delle donne alla Resistenza.

Viganò partecipò attivamente alla Resistenza e documentò quest’esperienza nel suo capolavoro L’Agnese va a morire, romanzo di grande successo pubblicato nel 1949 e che vinse il Premio Viareggio nello stesso anno. L’importanza del romanzo non consisteva solo nel suo valore letterario, ma soprattutto nel valore simbolico, in quanto era una delle poche opere scritte da donne a quell’epoca.

Un altro aspetto essenziale è appunto il carattere realistico dell’Agnese va a morire. Al di là del valore puramente letterario e artistico del romanzo, molti critici si sono soffermati a studiare la vena realistica che pervade il romanzo, facendone una testimonianza fedele della lotta e della guerra di Liberazione. L’Agnese va a morire è stato indubbiamente classificato come opera neorealista, che rispecchiava con toni reali le vicende del difficile periodo della lotta antifascista.

Una sera di settembre l’Agnese tornando a casa dal lavatoio col mucchio di panni bagnati sulla carriola, incontrò un soldato nella cavedagna. Era un soldato giovane, piccolo e stracciato. Aveva le scarpe rotte, e si vedevano le dita dei piedi, sporche, color di fango. Guardandolo, l’Agnese si sentí stanca. Si fermò, abbassò le stanghe. La carriola era pesante.
Ma il soldato aveva gli occhi chiari e lieti, e le fece il saluto militare. Disse: – La guerra è finita. Io vado a casa. Sono tanti giorni che cammino –. L’Agnese si slegò il fazzoletto sotto il mento, ne rovesciò le punte sulla testa, si sventolò con la mano: – Fa ancora molto caldo –. Aggiunse, come se si ricordasse: – La guerra è finita. Lo so. Si sono tutti ubriacati l’altra sera, quando la radio ha dato la notizia –. Guardò il viso del soldato e sorrise, un sorriso rozzo e inatteso sulla sua faccia bruciata dall’aria. – Io credo che i guai peggiori siano ancora da passare, – disse improvvisamente, con la rassegnata incredulità dei poveri; e il soldato si fregò le mani: era un ragazzo molto allegro.

La prosa è scarna e asciutta, essenziale eppure esaustiva, senza retorica; un procedere fluido e concreto, come se le scene fossero una serie di immagini fotografiche, il taglio classico delle opere neorealiste. La focalizzazione narrativa oscilla tra l’ottica esterna e quella interna di Agnese, il narratore è eclissato, parlano i fatti. Le uniche descrizioni che la Viganò si concede riguardano l’ambiente naturale. Nel 1976 dal romanzo fu tratto il film diretto da Giuliano Montaldo. Agnese aveva il volto di Ingrid Thulin; nel cast molti nomi noti, tra cui Michele Placido, Stefano Satta Flores, Flavio Bucci, Ninetto Davoli, Aldo Reggiani, Johnny Dorelli, Eleonora Giorgi e molti altri.

Andavano con le barche dentro il canale verde, viscido come una lumaca. Ai lati le canne erano alte, ma non facevano ombra: il sole passava fra i gambi diritti, nudi, come da un’inferriata, e bruciava sull’acqua, sulle erbe a galla che parevano bisce morte.