Parto da uno dei primi libri che ho letto su questo periodo cruciale della storia italiana, il romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a morire (vai alla mia recensione).

La storia è ambientata nelle Valli di Comacchio durante la seconda guerra mondiale, nel periodo degli otto mesi precedenti alla liberazione dell’Italia dagli occupanti tedeschi. La protagonista è Agnese, una lavandaia di mezz’età, che colpita dalla morte del marito deportato, pur non essendosi mai prima interessata di politica, inizia a collaborare con i partigiani come staffetta di collegamento. Proprio quando gli alleati inglesi stanno per prendere il sopravvento sui tedeschi, Agnese viene trattenuta dai soldati tedeschi e, riconosciuta dal maresciallo superiore di Kurt, viene uccisa. Della donna non rimane che “un mucchio di stracci sulla neve”.

Beppe Fenoglio, uno dei grandi scrittori del Novecento, è autore di alcuni tra i più importanti romanzi sulla Resistenza. Di lui vi consiglio di leggere i tre romanzi:

Primavera di bellezza (vai alla mia recensione) pubblicato da Garzanti nel 1959, ha come protagonista un giovane studente di Alba, soprannominato Johnny dagli amici a causa del suo amore per la letteratura inglese (un chiaro riferimento autobiografico). «Un romanzo di formazione, storia di un ragazzo che non diventa uomo perché incontra la guerra» (Piero Negri Scaglione). 8 settembre 1943: uno dei momenti piú difficili della nostra storia. Il momento in cui una generazione si trovò davanti a un bivio che l’avrebbe segnata in maniera indelebile. La vicenda di Johnny, futuro partigiano del capolavoro di Fenoglio, riassume tutta la confusione di quell’attimo incredibilmente lungo; tutto il peso delle scelte prese quando infuria la battaglia. Primavera di bellezza (1959) è il terzo e ultimo libro pubblicato in vita da Beppe Fenoglio.

Il partigiano Johnny è un romanzo autobiografico incompiuto pubblicato postumo nel 1968. Fenoglio non riuscì mai a pubblicarlo in vita: lo stesso titolo non è autografo, ma va attribuito ai curatori della prima edizione Einaudi. Gran parte delle vicende, pur romanzate, furono realmente vissute dall’autore in prima persona, ed è quindi lecito riconoscere in Johnny una proiezione dell’autore.
Il partigiano Johnny è la continuazione di Primavera di bellezza. In Primavera di bellezza Johnny, giovane sottufficiale dell’Esercito Italiano sbandato dopo l’8 settembre, tornava nelle sue Langhe per morire in una delle prime azioni della guerra partigianaIn realtà questo finale era stato consigliato a Fenoglio dai suoi editori della Garzanti (tra gli altri, Pietro Citati). Il partigiano Johnny riprende la storia di Johnny a partire dal ritorno a casa dopo l’armistizio: invece di aderire subito alla Resistenza, Johnny si rifugia presso la sua famiglia, che lo nasconde in una villetta in collina. Dopo aver vissuto, per qualche tempo, la monotona e angosciosa vita dell’imboscato, Johnny prende parte a una sommossa davanti alla caserma dei carabinieri per la liberazione di alcuni prigionieri. In seguito all’episodio, Johnny, spinto anche dai suoi ex professori di liceo, decide di lasciare Alba e la famiglia, e di unirsi al primo gruppo di partigiani che incontra nelle Langhe.

In breve tempo, Johnny impara che la vita del partigiano non è quell’avventura poetica che si era immaginato nei suoi sogni di letterato. Quando la sua formazione è costretta a sbandare sotto l’attacco tedesco, Johnny non prova a riunirsi ai superstiti, né cerca di tornare a casa. Va invece a cercare le formazioni azzurre, composte da militari dell’ex-esercito regio. Il loro capo, Nord, lo affida al presidio di Mango, come secondo di un tenente. Anche tra questi nuovi partigiani, però, Johnny non si sente a suo agio: la decisione di occupare Alba, pur sapendo che è impossibile tenerla vista la debolezza delle forze partigiane, esaspera il suo disagio verso i tatticismi e le strategie “formali” degli azzurri.

Dopo la drammatica perdita di Alba, le mal conciate formazioni di Nord subiscono il devastante rastrellamento dei nazifascisti. In fuga per giorni e notti, nei boschi delle Langhe, insieme agli amici Pierre e Ettore, Johnny riesce miracolosamente a salvarsi, trovando infine rifugio nella cascina di una contadina amica dei partigiani. Ma anche questo nuovo assetto è destinato a frantumarsi: Nord ordina ai pochi partigiani rimasti di nascondersi per l’inverno; il febbricitante Pierre si rifugia presso la fidanzata; Ettore è fatto prigioniero con la contadina e la lupa dai fascisti.

Johnny, dopo un inutile tentativo di scambiare Ettore con un soldato fascista (catturato in un’azione rischiosa e in più disertore), passa il duro inverno del ’44 da solo nella cascina saccheggiata. Ma proprio in questa condizione estrema, fatta di freddo, spie e fame, rifiutando coerentemente ogni invito a nascondersi, Johnny trova finalmente la sua dimensione ideale, la sua ragione d’essere partigiano, il senso di tutta quella assurda, benché necessaria violenza.

Alla fine dell’inverno, Johnny è uno dei pochi partigiani sopravvissuti di Nord. Solo che adesso, di nuovo in mezzo ai compagni che sognano la ripresa della vita civile, non si ritrova più. Ma quando la rinata formazione parte all’inseguimento di una pattuglia fascista, Johnny è il primo a farsi avanti. I partigiani, però, cadono in un’imboscata: Johnny assiste impotente alla morte di altri due reduci dell’inverno. Sordo ai richiami di ritirata, rimasto senza munizioni, Johnny riesce ad afferrare l’arma di uno dei due e si alza per sparare ancora. Il libro conclude: “Dopo due mesi la guerra è finita”.

Una questione privata (vai alla mia recensione). Nelle Langhe, durante la guerra partigiana, Milton (una controfigura di Fenoglio stesso) è un giovane studente universitario, ex ufficiale che milita nelle formazioni autonome. Eroe solitario, durante un’azione militare rivede la villa dove aveva abitato Fulvia, una ragazza che egli aveva amato e che ancora ama. Mentre visita i luoghi del suo amore, rievocandone le vicende, viene a sapere che Fulvia si è innamorata di un suo amico, Giorgio: tormentato dalla gelosia, Milton tenta di rintracciare il rivale, scoprendo che è stato catturato dai fascisti.

Il racconto termina con una fine sospesa, che viene al termine di un capitolo dai risvolti drammatici, durissimi, a tratti feroci. Un capitolo in cui accadono cose che Milton non verrà a sapere – almeno nello spazio del racconto-; e allora qual è il significato di questo capitolo? Forse Fenoglio vuole dirci che non esiste questione privata, che ogni nostra azione ha delle conseguenze che si ripercuotono, a catena, sugli altri? Vuole forse dirci che le nostre azioni, le nostre scelte, per quanto importanti per noi, hanno un prezzo, che richiede un forte senso di responsabilità? Una fine incompiuta a causa della morte di Fenoglio, o una fine progettata in questo modo? Quale che sia la risposta, non sembra necessitare di niente di più, questo racconto. Quello che aveva da dire, lo dice nella sua breve ma intensa tessitura.

Il sentiero dei nidi di ragno (vai alla mia recensione) è il primo romanzo di Italo Calvino. Pubblicato nel 1947 da Einaudi, è ambientato in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana. Dietro lo sguardo un po’ spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, giovane universitario di estrazione borghese, lascia gli studi ed entra nella Resistenza, in clandestinità vive a contatto di operai, gente semplice, condividendo la vita partigiana ma facendo parte inesorabilmente di un altro mondo. Ecco cosa dice l’autore stesso a proposito del libro:

“Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Al tempo in cui l’ho scritto, creare una ‘letteratura della Resistenza’ era ancora un problema aperto, scrivere ‘il romanzo della Resistenza’ si poneva come un imperativo; …ogni volta che si è stati testimoni o attori d’un’epoca storica ci si sente presi da una responsabilità speciale …A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…”

Ada Gobetti, Diario partigiano. Fu Benedetto Croce che sollecitò Ada Gobetti a raccontare agli amici che cos’era stata nel suo svolgimento quotidiano la lotta di liberazione. Ada così rievoca la sua avventura di madre che va a combattere accanto al figlio Paolo, diciottenne, e ne divide i pericoli e i disagi. Non c’è divario tra la donna che sfida le pattuglie tedesche e la madre in perenne ansia per il figlio. Ada è animata da una passione di libertà, da un bisogno di azione, da una femminile concretezza e semplicità che si ritrovano intatte sulla pagina, in cui affiora anche la sua vena di schietto umorismo. Accanto a lei figure di comandanti, di politici, o di semplici partigiani.

Questo libro di memorie della Resistenza ha un carattere d’eccezione, piú che per l’importanza dei fatti che racconta, per la persona che l’ha scritto e il modo in cui la guerra partigiana viene vista e vissuta. È il libro d’una donna la cui vita era già segnata dalla lotta antifascista: Ada Prospero, la vedova di Piero Gobetti, il giovane martire del primo antifascismo italiano, animata da una passione di libertà, da un bisogno di azione, da un coraggio eccezionali… il libro d’una madre che va a fare la guerra partigiana insieme a suo figlio di diciott’anni, e con lui divide pericoli e disagi.

Italo Calvino

Nato a Torino il 31 Luglio 1919, da una famiglia di origine ebraica, Primo Levi, dopo essersi diplomato a Liceo Classico, si iscrive alla facoltà di Chimica nel 1937  a Torino e ottiene la laurea quattro anni più tardi, nonostante le difficoltà nel trovare un relatore a causa delle leggi razziali. Nel 1942 si trasferisce a Milano per lavorare in una azienda farmaceutica; successivamente, insieme ad alcuni amici, si addentra nel mondo dell’antifascismo ed entra a far parte del Partito D’azione clandestino, partito fondato nel 1942 con l’obiettivo di cambiare la società italiana in modo radicale per spezzare definitamente il fascismo. Un anno dopo, in seguito alla militanza fra i partigiani in Valle d’Aosta, Levi fu arrestato e deportato ad Auschwitz nel 1944. Sarà liberato solo il 27 Gennaio 1945, quando l’Armata Rossa intervenne nel campo Auschwitz III dove era stato trasferito. Tutti conosciamo i suoi libri – testimonianza e monito per non dimenticare – ma voglio comunque suggerirvi di leggere o rileggere La tregua.

La tregua è un libro-memoria, séguito di Se questo è un uomo, che descrive le esperienze dell’autore dall’abbandono di Auschwitz da parte dei tedeschi con l’arrivo dell’Armata Rossa sovietica. Racconta il lungo viaggio del deportato ebreo per ritornare in Italia, nella città natale di Torino, con mesi di spostamenti nell’Europa centro-orientale. La sua testimonianza rappresenta quella dei milioni di sfollati al termine della Seconda Guerra Mondiale, in grandissima parte ex detenuti del Reich tedesco, sia lavoratori coatti che sopravvissuti ai campi di concentramento. Il libro vinse il Premio Campiello nel 1963. Lo stesso anno aveva raggiunto la finale del Premio Strega, che venne assegnato a Natalia Ginzburg.

Ne La casa in collina – scritto tra il 1947 e il 1948 – Cesare Pavese, , affronta, come già aveva fatto con Il carcere, il tema della solitudine e della impossibilità di partecipare alla storia senza più compromessi o giustificazioni.

Corrado, il protagonista, è un professore di Torino che vive, con uno spirito di indifferenza e di apatia, il duro periodo dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Rifugiatosi sulla collina torinese, egli vive presso due donne molto premurose nei suoi confronti: Elvira e la madre. Così trova piacevole incontrarsi con un gruppo di gente semplice e allegra che si ritrova in una vecchia osteria dalla parte opposta della collina, tra cui ritrova anche Cate, una donna che aveva amato anni addietro e che poi aveva lasciato per paura delle responsabilità. Cate ha un figlio, di nome Dino, che egli sospetta essere suo figlio, con il quale passa il tempo e nel quale egli rivede la sua spensierata fanciullezza.

Ma tutto questo non può durare e quando, l’8 settembre 1943, giunge l’annuncio dell’armistizio e la situazione, dopo i primi entusiasmi, sta precipitando, Corrado trascorre mesi di angoscia e paura finché un giorno i tedeschi fanno una perquisizione nell’osteria e Cate e gli amici vengono catturati. Corrado, che stava rientrando da Torino, osserva quanto sta succedendo senza essere visto e si salva. Rimane per un po’ di tempo nascosto presso Elvira e sua madre e in seguito si rifugia presso il Collegio di Chieri, mentre Dino, che lo raggiungerà più tardi, rimane per il momento presso le donne. Quando Dino lascerà il collegio per unirsi ai partigiani, Corrado decide di ritornare al suo paese natale “di là dai boschi e dal Belbo” anche se il ritorno a casa non serve a migliorare la sua crisi esistenziale.

Enne 2, un partigiano che vive la Resistenza a Milano nel 1944, è tormentato dall’amore impossibile per una donna sposata, Berta. Disperazione sociale ed esistenziale lo spingeranno a un’ultima, suicida impresa di guerra. Composto durante la Resistenza, nel momento, cioè, dell’intensa partecipazione di Vittorini alla lotta antifascista, Uomini e no riflette l’insanabile rapporto tra umanità e violenza, uomini e sedicenti tali: a sottolinearlo, alcuni brevi capitoli di riflessione nei quali l’autore affronta la stessa situazione da punti di vista diversi, imponendo all’attenzione del lettore le molteplici realtà in cui l’uomo è condannato a vivere.

Sacha Naspini ha da poco pubblicato Villa del seminario (vai alla mia recensione), un bel romanzo ispirato ad una vicenda reale.

Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. Vista da lì, anche la guerra ha un sapore diverso; perlopiù attesa, preghiere, povertà. Inoltre si preannuncia un inverno feroce… Dopo la diramazione della circolare che ordina l’arresto degli ebrei, ecco la notizia: il seminario estivo del vescovo è diventato un campo di concentramento. René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni. Schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più… René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. In realtà, non ha mai avuto il coraggio di fare niente. Le sue giornate sono sempre uguali: casa e lavoro. Rigare dritto. Anna ha un figlio, Edoardo, tutti lo credono al fronte. Un giorno viene catturato dalla Wehrmacht con un manipolo di partigiani e fucilato sul posto. La donna è fuori di sé dal dolore, adesso ha un solo scopo: continuare la rivoluzione. Infatti una sera sparisce. Lascia a René un biglietto, poche istruzioni. Ma ben presto trapela l’ennesima voce: un altro gruppo di ribelli è caduto in un’imboscata. Li hanno rinchiusi là, nella villa del vescovo. Tra i prigionieri pare che ci sia perfino una donna… Settebello non può più restare a guardare.

Ed eccoci al più uno: uno dei più grandi capolavori del nostro Novecento, una pietra miliare tra i romanzi che raccontano la guerra a Roma, la resistenza partigiana e quella civile, un romanzo che riflette su come gli esseri umani siano inglobati, loro malgrado, nei grandi meccanismi politici e militari che rivoluzionano la società. 

La storia è considerato il romanzo di maggior fortuna di Elsa Morante e fu, tra i suoi scritti, anche quello che suscitò più controversie. Fu pubblicato nel 1974 dopo tre anni di gestazione poiché l’autrice insistette personalmente perché fosse diffuso al più basso costo possibile. La vicenda di Ida, insegnante di origini ebraiche violentata da un soldato tedesco, si snoda tra l’occupazione nazista e la guerra partigiana, narrando la tragedia di una famiglia che viene fagocitata nel turbine della storia violenta di quegli anni. Il grande tormento della guerra e della devastazione degli anni immediatamente successivi è inquadrato dal punto di vista dei civili che la subirono senza poter opporre alcuna resistenza.

Mentre seguiamo le tragiche sorti di Ida e dei suoi figli, siamo spettatori del crollo dei grandi ideali novecenteschi che la Seconda Guerra Mondiale ha inghiottito. Dalle grandi lotte operaie e anarchiche dei primi decenni del Novecento, a causa del fallimento delle quali la famiglia di Ida si disgrega prima che lei si trasferisca con suo marito a Roma, il suo percorso passa attraverso le leggi razziali dalle quali deve occultarsi e il caos della capitale occupata e distrutta tanto dai rastrellamenti nazisti quanto dai bombardamenti alleati. Al tema della guerra e della lotta partigiana si accompagna nel romanzo quello dell’emarginazione femminile – si pensi all’evento che dà il via alla trama -, della miseria delle periferie e della segregazione sociale delle classi più umili.