INCIPIT
Alle feste di paese, alle fiere, compravo le carrube. Sfuse o già pronte nelle bustine di plastica trasparente, come le noccioline americane e i lupini. Sulle bancarelle si potevano trovare anche semi di zucca seccati e salati, mandorle tostate e caramellate. I pistacchi devono essere arrivati in seguito.
Io però volevo le carrube, che chiamavamo vainelle. Non so da cosa mi sia nata questa passione che non condividevo con nessun altro di mia conoscenza, ma a me piacevano e aspettavo queste occasioni rare durante l’anno per comprarle.
Nella breve strada fino a casa cominciavo a mangiucchiarle, gettando con discrezione i duri semi nella bustina stessa.
Arrivavo a casa che erano già finite e in mano mi rimaneva solo la bustina con i semi duri, un picciolo, e qualche rimasuglio tarlato, risputato dopo averlo addentato e di cui mi restava in bocca la sensazione di ragnatela amarognola.
Un tabù o qualche regola mai detta mi impedivano di comprarne molte di più, perché potessi ritrovarne il sapore e la consistenza anche nei giorni successivi, quando la festa era ormai finita, e neppure le cercavo altrove. Aspettavo la festa o la fiera successiva, e sapevo che ne avrebbero avuto il sapore, oppure ero pronta a non ritrovarle mai più, consegnate per sempre alla loro insolita presenza, senza aspettative, senza bramosia, senza delusione.
Antonietta Di Vito