La mia paura zagabrese è certo di minore intensità rispetto a quella che mi ha spinto ad andarmene quando ero laggiù in città o sul campo di battaglia, in compenso è incomparabilmente più diffusa, più profonda e più distruttiva. Perché è in qualche misura sotterranea. Mi penetra fin dentro alle ossa e presumo che anche un domani sarà difficile togliermela di dosso. (..) È come se la vita fosse una collana inanellata di sciagure, e per di più senza fine. È come se fossi rimasto intrappolato. Questa città è la mia trappola. pag. 106
Cirkus Columbia, di Ivica Đikić, Bottega Errante Edizioni 2019, traduzione di Silvio Ferrari
La guerra che ha insanguinato i paesi della ex Jugoslavia è una delle ferite più dolorose nel cuore e nella storia contemporanea dell’Europa. Sul conflitto e su tutti i suoi atroci sviluppi si è scritto molto, soprattutto a livello di saggi e reportage. Ma c’è anche una vasta produzione romanzesca e cinematografica che può aiutarci a capire meglio le dinamiche e soprattutto il clima che si viveva nei paesi coinvolti. Il romanzo che ho appena terminato rientra in questo sciame letterario che la guerra si è lasciata dietro.

Un romanzo dove la guerra non entra come racconto dal campo di battaglia, ma bensì attraverso la sua presenza incombente sulla vita di tutti i giorni, sulle relazioni tra cittadini che fino a poco prima coesistevano senza problemi e che, d’un tratto, diventano nemici da annientare. Persone che vengono portate via a forza dalle loro case, o che sono costrette a scappare, abbandonando le loro case, gli amici – o ex amici – le città in cui vivevano.
Il romanzo prende avvio nel 1991 in una cittadina della Bosnia dove tutti si conoscono e si sparlano alle spalle; una realtà che, fino all’avvento della guerra, vive in tranquillità la sua routine fatta di bevute in compagnia nelle osterie, serate al cinema, pettegolezzi, invidie e ripicche nel vicinato.

La prima novità che sconvolge le vite e mette in moto la macchina del pettegolezzo, è il ritorno in città di Divko Buntić, con la seconda e giovane moglie Azra, e il gatto Bonny, a cui lui sembra più affezionato che al resto dei familiari, tra cui il figlio Martin, avuto dalla prima moglie Lucjia.
Divko era emigrato in Germania, dove col duro lavoro è riuscito a mettere insieme una piccola fortuna; al rientro nella città natale, viene accolto con molta invidia e trattato un po’ come strambo per la passione che nutre per il suo gatto.
Gatto che, per una distrazione del figlio Martin, una notte sparisce e il cui ritrovamento diviene l’ossessione di Divko e, di riflesso, di tutta la città, vista la ragguardevole somma che mette in palio per chi lo dovesse ritrovare. La scomparsa sconvolge la vita in città e altera tutta una serie di equilibri; nell’economia del racconto, questa grottesca vicenda, regala al lettore una serie di ritratti ed episodi esilaranti, che diventano occasione, tra le righe, per l’autore di costruire un ritratto della società scherzoso ma capace di cogliere le idiosincrasie e le debolezze.
Quello che però sconvolge veramente le vite degli abitanti della città – e del Paese – sono i venti di guerra che soffiano impetuosi e improvvisi, traducendosi in persecuzioni ed esecuzioni agghiaccianti, deportazioni, fughe dalla città dei cittadini musulmani e serbi che fino ad allora vivevano in pace.
L’immagine di questa improvvisa follia è ben impressa nei quaderni e nella memoria di Janko Ivanda, perché anche i grandi eventi – o forse, soprattutto quelli – ci restano impressi legati ai particolari banali della quotidianità:
La guerra cominciò durante l’ora di storia dell’arte. Entrò nella nostra classe verso le otto di quella tetra mattina, era un po’ nervosa e le mani le tremavano leggermente. Aveva le sembianze del preside del nostro liceo Stanko Rubić e disse così: «Cari studenti, a giudicare da tutti i sintomi, la guerra è cominciata anche da noi. Cercate di raggiungere con precauzione le vostre case, poi vi faremo sapere quando sarà il caso di ritornare sui banchi. Arrivederci!» pag. 56
Janko racconta che fino a quel momento per lui il fatto che in città ci fossero dei serbi o dei musulmani, non significava altro che il fatto che ci fossero persone con nomi diversi, che festeggiavo ricorrenze diverse. E dunque, per lui, l’inizio della guerra rimane segnato dallo stupore e dal dovere acquisire delle consapevolezze che fino a quel momento non avevano inciso sulla sua vita, sulle amicizie.
Lo scrittore, più avanti nel dipanarsi della storia, concretizza l’assurdità di questa guerra fratricida con l’immagine di Divko Buntić che consuma i suoi giorni – e i suoi soldi – su una giostra, arrivata in città col circo, sulla quale continua a girare in un vorticoso movimento che annulla tutto ciò che gli sta intorno: unico e solo trastullo in grado di dargli felicità, riassume perfettamente la metafora del ripetersi dei cicli della storia, in un moto perpetuo e ricorrente.
Il romanzo è costruito in modo originale e si sviluppa utilizzando diversi registri narrativi, fino a raggiungere un assetto corale. Troviamo il punto di vista esterno del narratore onnisciente, la narrazione in prima persona attraverso il diario e le lettere di Martin, e la narrazione in prima persona contenuta nei quaderni di Janko. Tutto questo dona alla narrazione movimento e varietà, oltre ad offrire punti di vista diversi.
In particolare, riveste un ruolo centrale Martin, che a conti fatti potrebbe essere considerato il protagonista principale. Attraverso le lettere che indirizza all’ex sindaco della sua città – serbo e perseguitato dopo lo scoppio della guerra – suo amico e confidente, e il suo racconto in forma di diario, entriamo in empatia con lui e ne capiamo i turbamenti e le considerazioni personali e generali sugli eventi legati alla guerra.
Qualche volta mi capita di tornare a riflettere sulle ragioni per cui me ne sono andato via. Perché ho disertato? Non è tanto perché io sia un pacifista convinto. E forse nemmeno la paura era poi così insopportabile. Solo che tutt’a un tratto la realtà ha cominciato a farmi schifo: più che la mia personale condizione di combattente, che si traduceva in sette giorni di noia chiuso dentro baracche di legno o in fossati di trincea alternati a sette giorni di soggiorno a casa, era tutto il resto, tutto ciò che aveva a che fare con le conseguenze della guerra. (..) La gente diventa malvagia, pericolosa, avida più che mai – e usa con una facilità fin troppo eccessiva le parole più pesanti. (..) Tutto è diventato ancora più stupido e insensato del solito e la città si comportava come se avesse deciso di godere fino in fondo della propria stupidità e insensatezza: ciascuno sembrava credere coscienziosamente a ogni diceria e diffondeva chiacchiere e maldicenze con determinazione e ostinazione senza precedenti. pagg.94/95
Ma proprio per la costruzione narrativa, in realtà, ci sono diversi co-protagonisti: suo padre Divko che riempie l’inizio e la fine della storia e, grazie alle sue stramberie, assume un ruolo dissacratore e ironico; Janko, il giovane amico di Martin che parla attraverso i suoi quaderni, con tutto lo stupore di un adolescente che assiste a ciò che accade e lo registra; il vecchio sindaco serbo Leon Dilber, che rappresenta la vecchia guardia della lotta partigiana e della nascita della confederazione jugoslava; il nuovo e nazionalista sindaco Ranko Ivanda, simbolo dell’emergente nazionalismo insensato e violento. E poi tutta una schiera di altri personaggi, vicini ai protagonisti o più sullo sfondo, a definire un’intera città, ad emblema di un intero Paese. Belli i ritratti dei personaggi femminili, da Azra a Lucjia, a Maja.
“Cirkus Columbia” è un romanzo tipicamente balcanico (mi ricorda un po’ Ivo Andrić), dove protagonista è la collettività – vista nel suo insieme ma con delle zoomate profonde sui singoli; lo è nello sviluppo della trama, nello stile e in quel suo essere dissacrante e profondo, direi con una rassegnata profondità e consapevolezza delle miserie umane.
Naturalmente io non sentivo in me alcun desiderio di morire o di uccidere, tuttavia credo di essermene andato proprio perché volevo fuggire innanzitutto da quella comunità alienata e dall’incommensurabile e impenetrabile stupidità. pag. 95
Personalmente mi è piaciuto molto, soprattutto lo stile e la costruzione narrativa; mi ha appassionato la storia, mi hanno incuriosito le stranezze di Divko e naturalmente ho trepidato per la sorte di Bonny. È un libro che con leggerezza calviniana, con un mordente dissacratore, affronta un tema – quello del nazionalismo violento e sanguinario e dell’insensatezza della guerra – , che travalica i confini della sua geografia interna, per farsi paradigma della nostra società, soprattutto in questo periodo di ritorni e deja vu.
Ivica Đikić, nato a Tomislavgrad nel 1977, è giornalista e scrittore. Ha lavorato al “Feral Tribune”, al “Novi List” e ora è l’editor del settimanale “Novosti”. Tutto ciò che ha scritto si basa su fatti storici, su persone e vicende reali su cui costruisce una narrazione in forma letteraria. I suoi romanzi Cirkus Columbia e Ho sognato gli elefanti sono stati tradotti in Germania, Italia, Spagna, Ungheria. Sono seguiti molti altri libri e nel 2016 ha pubblicato il romanzo documentario Srebrenica. A Story of Evil che uscirà in Italia per Bottega Errante Edizioni.
Danis Tanović (regista premio Oscar 2002 come miglior film straniero con “No man’s land”, nonché al Festival di Cannes), ha diretto il film tratto dal romanzo, presentato alla 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e vincitore al Sarajevo Film Festival.
“Ero attratto -spiega Tanović- dall’idea di girare un film ambientato in questo periodo anteguerra perché m’interessava raccontare la quotidianità delle persone normali nei momenti che precedono i grandi cambiamenti storici, gli uragani della storia. Volevo mostrare quanto fossero inconsapevoli di trovarsi su quella linea sottile tra guerra e pace.”
Il film – come il romanzo – dimostra l’insensatezza della guerra, riflettendo con nostalgia sull’attimo prima dell’esplosione, quando il dialogo avrebbe potuto evitare l’assurdo incontro tra due soldati bosniaci e uno serbo nella trincea di una terra di nessuno. Come ha avuto modo di dire il regista, il film racconta “l’ultimo momento in cui siamo stati davvero felici”, la vigilia di una tragedia che ha messo l’uno contro l’altro gli amici e i fratelli.
Qui potete leggere l’incipit del romanzo.
Ero all’oscuro di libro ed autore e mentre leggevo la prima parte della recensione pensavo al fatto che la storia ben si sarebbe prestata a essere trasportata sul grande schermo. E più avanti scopro che non solo è stato fatto il film ma è stato anche premiato. La curiosità di mi è ormai scattata, libro e film messi in lista di interesse. Spero che bissi il gradimento che ho avuto per il film di Kusturica “Sulla via lattea” del 2016 . Intanto Grazie mille per la segnalazione
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Ciao Daniela, il film non l’ho ancora visto, per cui non posso esprimermi, spero che sia all’altezza di No man’s land che mi era piaciuto molto. Il romanzo è molto bello. Buona settimana
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Ivo Andrić è un grande cantore di quella terra mosaico di popoli: un mosaico che è stato mandato in frantumi da lotte fratricide. Mentre leggevo la tua recensione, mi è anche venuto da pensare a “L’amore e gli stracci del tempo”: vedi alla voce gli effetti del nazionalismo esasperato…
Grazie per l’ennesima chicca letteraria, incartata con parole sapienti ;).
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In occasione di questa lettura ho sbirciato il catalogo di questa casa editrice, che tra l’altro non conoscevo affatto, e ho visto che ci sono molti libri interessanti di autori balcanici. Mi sa che pescherò ancora qualcosa… ciao e buone letture!
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Non vedo l’ora! Dovrò sicuramente andare a spulciare il loro catalogo ;).
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Ci sono tanti titoli interessanti. Non vorrei che questo post sembrasse una pubblicità, ma quando trovo una CE indipendente che secondo me merita attenzione, non mi dispiace dargli visibilità.
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Fai benissimo: le CE indipendenti sono gioiellini tutti da scoprire. Però dovrebbero offrirti una collaborazione, così avrei ancora più belle recensioni da leggere ;).
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Magari, che sto spendendo un capitale ;)))
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