So di essere responsabile, ma non mi sento colpevole. Semplicemente ne prendo atto: a me interessano prima di tutto i miei piccoli diritti e la mia vita quotidiana; voglio essere ironico e non credere ai grandi destini, ai grandi uomini e alle grandi parole; voglio vivere in un piccolo bicamere e avere un grande letto dal quale si alza ogni mattina una donna dai seni piccoli che mi racconta i suoi sogni. io non ascolto i suoi racconti ma so che nutrono la mia vita. (pag. 96)

Generazione Serbia, di Dušan Veličković, Bottega Errante Edizioni 2018, traduzione di Elisa Copetti, pagg. 169

 

Continua il mio viaggio nell’Europa balcanica, per approdare, con questa lettura, in Serbia. Ero molto curiosa di leggere questo romanzo, scovato nel catalogo della casa editrice Bottega Errante, che ha proprio su questi territori la sua offerta core. Tra i tanti titoli allettanti, ho scelto questo perché di Veličković avevo già sentito parlare molto bene a proposito del suo “Serbia Hardcore”, raccolta di racconti – forse avrei dovuto leggere prima quello, non so; però partire dalla migliore opera di un autore poi ti mette nella condizione di non trovare conferme…. boh, sono punti di vista.

Veličković è un intellettuale e un giornalista noto per la sua opposizione a Milošević, ha trascorso molti anni lontano dal suo paese proprio per questioni ideologiche, si è impegnato molto in ambito culturale e giornalistico. Insomma, una figura di rilievo e con molto da dire. E infatti il romanzo colpisce, oltre che per la trama avvincente, per le molte idee che emergono, per le considerazioni sulla posizione degli intellettuali nei momenti topici della Storia, sull’etica.

Non è un caso che gli imperi abbiano cominciato a sgretolarsi e che non ne siano potuti nascere di nuovi. Le ideologie cambiavano residenza e la gente non faceva attenzione a quel che diceva. I comunisti ribadivano di non esserlo, mentre i popoli intonavano canti proibiti. Gli agitatori gridavano alla gente e dal popolo arrivava un eco tre volte più forte. I capipopolo gridavano ancora di più gli uni contro gli altri. Incontrai un uomo che era partito per la guerra. Aveva l’aspetto di un clown. (pag 93)

Bene, così ho letto questo libro di cui, a fine lettura, ho trovato molti pareri in rete; se siete curiosi non mancheranno gli spunti critici. Veniamo alle mie impressioni.

Parto subito col dire che mi è piaciuto, anche se con qualche riserva. Mi è piaciuta la saga della famiglia Kobac/Tomić, declinata esclusivamente nel ramo maschile – le donne sono figure fuggevoli – raccontata in modo accattivante, con molta ironia e intelligenza. Una linea genealogica che riserva personaggi eclettici e originali e che quindi hanno avuto delle vite da raccontare. Vite che si sono intrecciate con la Storia, con personaggi famosi – Freud e Lenin, tanto per dire-, che sono state spettatrici di eventi funesti – guerre -, di grandi cambiamenti e di dibattiti morali e politici.

Intrigati dalla trama e dalle vicende personali dei protagonisti, di generazione in generazione, si ha comunque tutto il modo di alzare lo sguardo e puntarlo su una nazione, sui suoi appuntamenti con la Storia e il destino, nonché fermarsi a fare qualche riflessione. Gli spunti ruotano attorno ad un secolo di grandi cambiamenti per l’Europa, in generale, e ovviamente anche per la Serbia, che si svincola dall’eredità austro-ungarica, per entrare nella federazione jugoslava con lo sguardo puntato sull’Unione sovietica, fino alle guerre balcaniche degli anni Novanta, fomentate da un nazionalismo che purtroppo ha portato ad una deriva lacerante, e poi agli anni Duemila. L’autore ci propone una storia familiare a simbolo di un paese, ci stimola a riflettere sul ruolo degli intellettuali, della scrittura, dei capi-popolo, della propaganda.

A questo proposito, è stata illuminante l’intervista di Aleksandra Ivić all’autore che ho letto sul sito “Osservatorio Balcani e Caucaso” – che vi consiglio come approfondimento- in cui l’autore entra nel particolare della sua visione e dell’attuale situazione socio-culturale serba, tra contraddizioni e speranza per un futuro davvero rinnovato.

Cosa non mi ha convinto: la traduzione del titolo, per prima cosa. Mi è sembrato un chiaro ammiccamento al titolo dell’apprezzato “Serbia Hardcore”, un po’ forzato, perché, invece, a volerlo tradurre letteralmente sarebbe stato “Bella ciao”, che ovviamente ha un significato preciso all’interno del romanzo.

In secondo luogo, e parlando nello specifico nelle scelte narrative, mi ha molto preso tutta la parte in cui la saga familiare è il tema preponderante, l’intreccio tra le storie private e la Storia; ho trovato più dispersiva la parte finale in cui al centro stanno più gli aspetti intellettuali e politici della società serba.

Comunque si tratta di una lettura stimolante, illuminata da un’intelligente ironia, importante per approcciarsi alla storia e alla cultura serba.

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https://ilmanifesto.it/dusan-velickovic-e-la-contraddittoria-storia-dei-balcani/

Qui potete leggere l’incipit.