L’ area geografica dei Caraibi è delineata dai paesi bagnati dal Mare Caraibico, ovvero dalle isole delle Antille e dai litorali di alcuni paesi continentali del centro e dell’America meridionale che si affacciano al mare.
La letteratura caraibica moderna ha come punto di partenza la Rivoluzione haitiana (1804), quando per la prima volta gli schiavi ribelli conquistarono il potere contro la Francia colonizzatrice.
I temi e le inquietudini espresse in tutta la letteratura di quel periodo, si trovano in stretta relazione con il clima sociale e politico, in particolare sui territori di lingua ispanica si affermano il modernismo e i movimenti che ne derivano, con l’apporto decisivo delle idee illuministe e dei movimenti letterari europei: romanticismo, realismo e naturalismo. Dopo la guerra ispano-statunitense del 1898, ma soprattutto nell’arco temporale compreso fra le due guerre mondiali, i temi dominanti della letteratura continuano a essere il colonialismo e il neo-colonialismo analizzati attraverso il filtro di una definitiva ricerca d’identità, di giustizia sociale e di sovranità nazionale.
Negli anni Cinquanta prende avvio la lenta ma entusiastica ricerca di una realtà caraibica che vede fiorire uno scambio e un intreccio continui di esperienze e di creatività, pur nelle diversità determinate dal pluralismo della regione.
Con i nuovi autori la letteratura caraibica entra a pieno titolo nel panorama americano e mondiale, con autonomia e linguaggi propri e in un ambiente con un vivo senso del presente, della natura e della gioia di vivere, espresso in modo semplice.
Dallo spagnolo di Cuba e della Repubblica Dominicana al francese di Haiti e della Martinica, all’inglese di Trinidad e della Giamaica all’olandese di Curacao, al portoghese, al hindi, al cinese, alla varietà di patois e creoli, le lingue delle Antille rispecchiano questo ricchissimo e drammatico groviglio di influssi diversi.
(ringrazio la Biblioteca di Imola per il materiale messo a disposizione sul web)
La voce più conosciuta, anche grazie al Nobel ottenuto nel 1992, è il poeta e scrittore Derek Walcott, nato nell’isola di Santa Lucia. La sua produzione letteraria lo ha reso noto soprattutto per le sue opere poetiche e teatrali in lingua inglese. L’altro idioma usato in alcune opere minori è il creolo delle Antille, il creolo della sua terra natale, l’isola di Santa Lucia, appunto. Soprannominato l'”Omero dei Caraibi”, nel 2010 aveva premio il Thomas Stearns Eliot Prize e nel 2012 era stato insignito del Premio Montale. La sua poesia multiculturale è contraddistinta dalle tensioni, tra accettazione e risoluzione: così nell’immagine del naufrago abbandonato, in “The castaway and other poems” (1965), poi in “The gulf and other poems” (1969), fino al lungo poema “Omeros” (1990), dove il rinvio a Omero propizia la visione di un paesaggio storico e geografico che unifica presente e passato.
L’altro Nobel (2001), è V.S. Naipaul, di cui vi propongo “Una via nel mondo“.
«Nel nostro sangue, nelle nostre ossa, nel nostro cervello portiamo i ricordi di migliaia di esseri». Si direbbe che sia innanzitutto la sfida di questo «mistero dell’eredità» a spingere V.S. Naipaul di nuovo verso Trinidad, l’isola dove è nato, fonte primaria e privilegiata, da sempre, delle sue storie. La via che sceglie è affascinante e singolare: una sorta di romanzo-non romanzo in cui confluiscono e si intersecano tutte le forme – dalla narrazione autobiografica al saggio al racconto di viaggio alla ricostruzione storica – che egli ha sperimentato nella sua opera. Anche i piani temporali si intrecciano, in un tessuto che annoda insieme i fili della memoria storica e letteraria con quelli del ricordo personale e familiare. All’inizio è la vita di un singolo (Naipaul stesso), alla fine saranno molte le vite che qui trovano (e perdono) una «via nel mondo».
Con lucido, impavido spirito critico, che si amalgama con una sotterranea commozione, Naipaul cerca di riconquistare quel passato così sfuggente rievocandolo in una narrazione vasta e ricca – tenace nella sua determinazione di sottrarre luoghi, fatti e persone alla oscura forza che li cancella. È come se assistessimo all’espandersi di una memoria che muove da alcune nitide, folgoranti immagini infantili per abbracciare terre e tempi sempre più remoti, fino alle crudeli avventure di Sir Walter Raleigh e del rivoluzionario Francisco Miranda.
Vidiadhar Surajprasad Naipaul (Chaguanas, Trinidad, 1932), nipote di un bramino, figlio di un reporter, si trasferisce in Inghilterra nel 1950, dove diviene giornalista presso la BBC. Scrittore dalla vena amara e pessimistica incentra spesso nei suoi romanzi i Caraibi e la storia coloniale di Trinidad, spesso criticato per il suo esilio senza ritorno nel paese natale, in occidente è invece considerato come un maestro del romanzo britannico. Dotato anche di talento storico e grande amante dell’arte, Naipaul si è costantemente interrogato, anche nelle sue ultime opere, sui modi di rappresentare il colonialismo e sulle sue tracce, e sul rapporto che il soggetto postcoloniale intrattiene col mondo.
Nell’isola caraibica di Trinidad, abitata da una popolazione mista di discendenza indiana e africana, Betty Ramdin, da poco vedova con un bambino di cinque anni, prende in affitto in casa Mr Chetan. Questi è una persona davvero perbene che presto diventa suo amico e anche una figura paterna per il bambino. Mr Chetan è omosessuale in un’isola dove è impossibile dichiararlo apertamente. I tre si stringono sempre più in un legame famigliare che li conforta e li protegge dalle asprezze della vita sull’isola. Presto però sulle loro teste si addenseranno nubi minacciose. Vincitore del Costa First Novel Award 2020
Dopo la laurea in legge e una lunga carriera accademica al King’s College di Londra, Ingrid Persaud si è dedicata allo studio delle belle arti ed è infine approdata alla scrittura debuttando con il romanzo If I never went home (2014), cui è seguito il racconto The sweet sop, che le è valso il Commonwealth Short Story Prize nel 2017 e il BBC National Short Story Award nel 2018.
“Gli alberi musicanti” di Alexis Jacques Stephen è una storia epico-lirica del popolo haitiano ambientato negli anni Quaranta, quando ha inizio la speculazione orchestrata dal capitale Usa con l’appoggio di un governo ad esso asservito e del clero cattolico, che approfitta della congiuntura per dar battaglia agli dèi ancestrali del popolo afroamericano, gli enigmatici Laos del vudù di Haiti.
Questo romanzo – il più importante di Alexis – è un classico che ha profondamente segnato le letterature postcoloniali.
Impastato di piccante creolo, traboccante ritmo e danza, Gli alberi musicanti testimonia l’ibridazione avvenuta nella diaspora africana con il suo linguaggio, la sua vicenda, il suo favoloso immaginario fiorito nel ventre caldo del mar dei Caraibi.
Jacques Stephen Alexis ( Haiti 1922-1961) studiò medicina a Port-au-Prince e neurologia a Parigi, militò nei movimenti studenteschi ed emerse ben presto nel panorama politico e culturale haitiano.
Il suo giornale, «La Ruche», contribuì a far cadere il governo filostatunitense di Lescot nel 1946. Esule a Parigi, iniziò la carriera letteraria con il romanza Compère Général Solei! (1955), seguito nel 1957 da Gli alberi musicanti, nel 1959 da L’Espace d’un cillement e Le Romancero aux étoils. A fine anni Cinquanta Haiti cadde in preda alla dittatura di Duvalier, che Alexis avversò attivamente . Dall’esilio, nel 1961, tentò uno sbarco sull’isola: arrestato, scomparve nelle segrete dei Tontons Macoutes, dove morì fra le torture.
“L’albero della cuccagna” di René Depestre
In un’isola tropicale dei Caraibi, Zoocrate Zacharie, “Grande Elettrificatore delle anime”, è a capo di una feroce dittatura. Henri Postel, ex senatore della deposta Repubblica, è condannato a diventare un piccolo bottegaio. In procinto di esiliarsi e di uccidere un usuraio al servizio del regime, Postel scopre che c’è la gara nazionale dell’albero della cuccagna e decide di partecipare per sconfiggere moralmente il tiranno. Ad aiutarlo sono un vecchio calzolaio, Sora Cisa (mambo-sacerdotessa vudu) ed Elisa Zaza Valéry. Sora Cisa gestisce, secondo i riti vudu, la preparazione di Postel alla gara. Elisa Zaza Valéry entra in questa ritualità dando al protagonista, con la dedizione d’animo e la carnalità del suo giovane corpo, l’energia per l’impresa del giorno successivo. L’intreccio di questo romanzo è ancorato al mondo terribilmente reale dell’Haiti devastata dalla dittatura di Duvalier, dove il minimo segno d’opposizione al regime era stroncato con la tortura e l’omicidio e la popolazione era ridotta in condizioni subumane.
René Depestre (Jacmel, Haiti, 1926), scrittore haitiano di lingua francese. A diciannove anni fondò il giornale “Le Ruche”, la cui soppressione fu l’origine della sommossa che portò alla destituzione del presidente di Hiati, Lescot. Esiliato continuò i suoi studi a Parigi, insegnò in Giamaica e all’Avana, dove per vent’anni fu un sostenitore di Castro. Le sue raccolte poetiche celebrano la lotta degli oppressi e la sensualità, i suoi romanzi difendono l’universalismo contro una concezione rigida della negritudine.
“Le regine dell’Avana”. Questo volume di racconti mette in scena una indimenticabile galleria di figure femminili del presente e del passato dell’Avana: Fátima, il travestito, filosofo a modo suo; la misteriosa Miosvatis; la corista Rachel; l’anarchica zia Sunsita; la domestica di colore Patrona; Ágata, amante della poesia; la triste Milagros; la vecchia Elvira, un po’ santa e un po’ strega…
Miguel Barnet è nato a l’Avana nel 1940. Etnologo, poeta e romanziere, è considerato uno dei maggiori scrittori latinoamericani contemporanei.
Dopo aver ricoperto per più di dieci anni l’incarico di ambasciatore presso l’Unesco a Parigi, attualmente dirige la Fondazione Fernando Ortiz, dell’Avana, è deputato dell’Assemblea Nazionale e vicepresidente dell’Uneac (Unione degli Artisti e Scrittori di Cuba).
“Tre tristi tigri” di Guillermo Cabrera Infante. Il caleidoscopio di personaggi di questo romanzo vive nell’Avana di Batista poco prima della rivoluzione di Castro: una società sospesa, sulla soglia della disgregazione finale, come sotto un vulcano che sta per esplodere. Ma, avverte ambiguamente lo scrittore che ha sempre impregnato i suoi libri di ben precisi odi e insofferenze, qualunque rassomiglianza fra la letteratura e la storia è accidentale. Il vero protagonista è il linguaggio, nel quale l’autore infonde un’energia, uno slancio e una vitalità gioiosa.
Guillermo Cabrera Infante (Gibara, Cuba, 1929), scrittore, saggista, critico cinematografico e diplomatico cubano, nel 1965 si allontanò definitivamente dal regime di Castro e si stabilì a Londra. Il suo esordio come narratore risale al 1960 con una raccolta di novelle “Così in pace come in guerra” nella quale faceva una cronaca dell’Avana dopo la dittatura Batista. I romanzi e le opere successive si situano all’interno di uno sperimentale linguistico, che ha radici salde nella tradizione barocca latino-americana.
“Paradiso” è il primo romanzo di José Lezama Lima: uscito nel 1966, dopo una gestazione di ben diciassette anni, è ritenuto il capolavoro dell’autore cubano e una delle opere più innovative della narrativa in lingua spagnola. Accolto con entusiasmo dagli scrittori dell’epoca, il libro fu uno scandalo per la critica ufficiale, che lo considerò ermetico e morboso, soprattutto per le allusioni a relazioni omoerotiche. L’opera, concepita da Lezama Lima come il culmine della sua riflessione poetica, traccia la vita e la formazione del poeta José Cemí Olaya, dall’infanzia agli anni universitari, narrando parallelamente la storia della famiglia del protagonista.
José Lezama Lima (L’Avana, Cuba, 1910 – 1976). Poeta, romanziere e saggista cubano, figlio di un colonnello di artiglieria, condusse sempre una vita ritirata. Fondatore della rivista “Origines” divenne uno dei capiscuola della poesia contemporanea in lingua spagnola e per questo a tutt’oggi è oggetto di numerosi studi critici in America latina e all’estero. Cattolico praticante, con il trionfo della rivoluzione cubana, subì l’isolamento ufficiale. La sua poesia, carnosa e tropicale, vuole essere un mezzo di conoscenza ma non si lascia conoscere; la sua densa materia trasforma la parola con allegorie, simboli, metafore e richiami in una lucida follia. Nei suoi saggi, romanzi e racconti si può scoprire l’immagine viva, contraddittoria e reale di Cuba, della sua storia celata, della politica e della cultura.
Il protagonista di “Trilogia sporca dell’Avana“, Pedro Juan, attraversa gli anni della storia recente di Cuba, gli anni Novanta, quelli della sua crisi peggiore, che si incrocia e si fonde con la personale crisi dell’autore: il suo licenziamento da giornalista, il fallimento matrimoniale, la solitudine, la caduta rovinosa nella miseria e nella marginalità. Il lettore si trova a seguire Pedro Juan nelle sue disavventure picaresche, le sue leggendarie gesta erotiche, la sua perenne caccia al rum, alla marijuana, a qualsiasi cosa permetta di sopravvivere e di provare piacere nel contesto della miseria di un paese povero. In una Cuba fatta di carne, suoni e odori, terra d’umanità precaria, è la fisicità dei corpi e il sudore degli amplessi a scandire il tempo di un romanzo in cui le maratone di sesso lasciano ben presto il posto a brucianti riflessioni sulla vita, l’arte e la condizione umana. Ne viene fuori un’epopea spietata ma anche umana di una città, L’Avana, bella, sensuale, corrotta, malata, vitale.
Pedro Juan Gutiérrez (Matanzas, Cuba, 1950) ha fatto mille lavori. È laureato in giornalismo all’Università dell’Avana. Tra i suoi libri, oltre a Trilogia sporca dell’Avana, Il Re dell’Avana, Animal tropical, Malinconia dei leoni, Carne di cane, Il nostro GG all’Avana e Il nido del serpente (pubblicati dalle Edizioni E/O) ricordiamo le raccolte di poesia La realidad rugiendo e Espléndidos peces plateados, Vivir en el espacio e il racconto Un rincón en el paraíso.
“Cadere” del cubano Carlos Manuel Álvarez: un autore della nuova generazione, che racconta la Cuba di oggi. Per questo romanzo vi rimando alla mia recensione.
“La vita perfida”. Con rispetto e senso dell’umorismo Condé racconta la follia postcoloniale, con i suoi scompigli e abusi, ma anche il calore e la solidarietà umana. Nelle sue storie i morti vivono a stretto contatto con i viventi in un mondo immenso e affollato dove le categorie di genere, razza e classe vengono costantemente stravolte in nuove costellazioni.
Quella dei Louis della Guadalupa è la storia avventurosa della nascita di una borghesia nera cosmopolita, un’epopea in cui si succedono donne e uomini orgogliosi o disperati, fantasmi che gridano vendetta, sogni di emancipazione, rabbia e violenza. Fondatore della dinastia è il bisnonno Albert, detto Boccaccia d’Inferno, che all’inizio del ’900 fugge dalle piantagioni di canna da zucchero della sua isola nei Caraibi per cercare fortuna nei cantieri del canale di Panama e poi nella Chinatown di San Francisco. Uomo ambizioso e tenace, con un pessimo carattere ma dotato di uno spiccato talento per gli affari, Albert porterà la famiglia dalla miseria agli agi di una vita ricca di cultura, di viaggi e di rispetto. Tuttavia la sua eredità conterrà anche la vergogna per le umiliazioni subite dalla sua razza, l’odio verso i bianchi, la confusa ricerca di identità etnica.
Maryse Condé (Pointe-à-Pitre, Guadalupa, 1937). E’ una delle scrittrici caraibiche più importanti e conosciute al mondo, in tutta la sua attività letteraria, romanzi, saggi e opere teatrali, rimette in discussione il mito del ritorno alla madre Africa, tema dominante per gli intellettuali antillani della generazione precedente e imperniati sui problemi sociali ed economici della sua terra, con un’attenzione particolare alle difficoltà delle relazioni tra africani e antillesi.
“Tutto mondo”. Con la sua scrittura magistrale, Édouard Glissant conduce il lettore verso un viaggio infinito dove si toccano e confondono i paesaggi più lontani, in un vortice di tempi e di spazi. Così il Laos diventa la Martinica, le Cinque Terre evocano le Eolie, l’ondeggiare ipnotico del Colombie richiama quello della nave negriera che secoli prima ha solcato, in senso inverso, le stesse Immense Acque. In questo “nuovo” “Tutto-mondo”, in cui uomini e linguaggi si mescolano, s’incrociano le vite e i destini di personaggi indimenticabili: il vecchio Longoué e le sue quattro morti, l’ispirata Mycéa, che è “il segreto e la chiave dei misteri del paese”, e, soprattutto, Mathieu che vaga da un continente a un altro alla ricerca di un senso e nella perenne attesa di una misteriosa ferita che gli è stata predetta. “Ma, dice Glissant, sono coloro che navigano tra due impossibili il vero sale della diversità del mondo. Non c’è bisogno di integrazione, più di quanto non ce ne sia di segregazione, per vivere insieme nel mondo e mangiare tutti i cibi del mondo in un paese”.
Édouard Glissant (Sainte-Marie, Martinica, 1928). Etnologo, poeta, saggista e scrittore si è fatto campione dell’antillità, frutto della complessa eredità razziale e delle diverse influenze culturali di cui la sua terra è stata luogo d’incontro. Fin dalle raccolte poetiche testimonia l’attaccamento al suo “paese sognato”, le Antille. La sua opera teatrale e i suoi romanzi trattano i problemi dell’identità martinicana al di fuori della storia ufficiale, dal tempo della tratta degli schiavi fino ai giorni nostri.
Lo scrittore Marlon James ha vinto il Man Booker prize per il romanzo Breve storia di sette omicidi. È il primo autore giamaicano a vincere il più prestigioso premio letterario riservato alle opere di narrativa in lingua inglese pubblicate nel Regno Unito.
Vicina al reggae, eppure così distante dalla rivoluzione pacifista auspicata dalla religione rastafari, nel 1976 la Giamaica trabocca di proiettili, miseria, stupri, droga, mafia, servizi segreti e poliziotti corrotti. Il 3 dicembre, alla vigilia delle elezioni politiche, e a due soli giorni dal grande «concerto per la pacificazione», organizzato da Bob Marley («il Cantante») per attenuare le tensioni che dilaniano l’isola e la sua disperata capitale, sette uomini armati irrompono nella villa di Marley, e feriscono lui, la moglie, il manager e molte altre persone. È un episodio storicamente accertato, del quale pubblicamente si è detto pochissimo, mentre moltissimo è stato raccontato, sussurrato e cantato per le strade di West Kingston. Chi erano gli attentatori? Che fine hanno fatto? Chi li aveva mandati?
Breve storia di sette omicidi – oltre a essere un romanzo che colpisce per lo stile complesso, vario e seducente – è il racconto, epico e polifonico di questa vicenda, e di questi uomini. Un ambizioso e compiuto ritratto del lato oscuro della Giamaica, e non solo, dagli anni Settanta agli anni Novanta. Un poema lungo vent’anni, nel quale si intrecciano i destini di decine di personaggi le cui vite sono state irrimediabilmente segnate dagli eventi del 1976: chi impegnato semplicemente a sopravvivere, chi a nascondersi, chi a prendersi tutto. E anche quando l’azione si sposterà principalmente negli Stati Uniti, il fantasma di quei giorni giamaicani continuerà ad aleggiare su ognuno di loro.
“I gatti non hanno nome“.La giovane protagonista di questo libro non ha nome. Passa l’estate lavorando come segretaria nella clinica veterinaria degli zii mentre i genitori sono in Europa. Intanto annota su un quaderno i possibili nomi per un gatto, ispirandosi alle persone e agli animali che colpiscono la sua immaginazione. Come Zio Fin, che sguscia di stanza in stanza per evitare le sfuriate della moglie, Zia Celia, la cui rabbia si proietta in forma di scritte al neon. Come Armenia, la cameriera che da bambina curava la tubercolosi con un cucchiaio; e ancora come Radamés, il ragazzo di Haiti la cui voce sembra uno sciroppo per la tosse.
In un libro impossibile da riassumere se non leggendolo, Rita Indiana illumina quel breve, magico momento della vita in cui ci si mette in cerca della propria identità.
Quando, per mantenere uno sguardo incantato sul mondo, si deve scendere a patti con la realtà senza abbandonare del tutto l’ingenuità dell’infanzia. Miscelando la pop art al “reale meraviglioso caraibico”, la scrittrice ci consegna il ritratto di una ragazzina indimenticabile.
Rita Indiana è nata nel 1977 a Santo Domingo. Figura chiave della letteratura caraibica contemporanea e leader della band di merengue alternativo Rita Indiana y los Misterios, ha scritto romanzi e racconti, tradotti negli Usa.
“Il vecchio schiavo e il molosso”. Un uomo corre attraverso la Martinica. È un vecchio schiavo taciturno che ha passato la sua intera, anonima esistenza in una piantagione di canna da zucchero. Ma ora fugge, e il Padrone si mette sulle sue tracce con un molosso feroce, allevato per sbranare gli schiavi, incattivito dal lungo viaggio per mare, stivato sul vascello negriero. La corsa del vecchio schiavo, scandita da un ritmo che segna la conquista della consapevolezza di sé, diviene un’escursione del passato martinicano. È una corsa mozzafiato – resa per accumulazione d’immagini che si alimentano d’invenzioni linguistiche inesauribili – che porterà il vecchio “marron” ad affrontare la vita come un “guerriero”: senza aggressività ma attento a ciò che lo circonda.
Patrick Chamoiseau è nato a Fort-de-France, Martinica, 1953. Teorico, con R. Confiant, della «creolità» (Elogio della creolità, Éloge de la créolité, 1989), immette nei suoi romanzi (Cronaca delle sette miserie, Chronique des sept misères, 1986; Texaco, 1992); Il vecchio schiavo e il molosso, L’esclave vieil homme et le molosse, 1997) coloriture e tecniche proprie delle narrazioni orali dei Caraibi. Il senso di straniamento prodotto dalla sopraffazione della cultura francese su quella martinicana domina la trilogia autobiografica Un’infanzia creola (Une enfance créole, 1990-2005, nt). Il valore della memoria come resistenza percorre la poetica rievocazione di un immaginario rivoluzionario, protagonista di Biblica degli ultimi gesti
“Il libro di Emma”. Inno sofferto all’emancipazione femminile, il libro narra l’incontro tra una donna ricoverata in un manicomio criminale di Montreal (con l’accusa di aver ucciso la figlioletta) e la sua interprete Flore, chiamata a svolgere un ruolo insolito, poiché la paziente capisce e parla perfettamente il francese. Aiutando il medico a sondare l’universo di Emma, Flore verrà profondamente coinvolta nella sua vicenda umana, recuperando le proprie radici di donna e di haitiana. Sempre in bilico tra delirio e lucidità, Emma rievoca la sua vita passata tra un’infanzia difficile ad Haiti, dove è stata ripudiata dalla madre, e il Canada, dove tenta senza successo di riscattarsi. La sua storia individuale però non è isolata e si inscrive in quella delle sue antenate, schiave nelle piantagioni haitiane. Attraverso le narrazioni grandiose e terribili di Emma, le due donne si avvicineranno emotivamente fin quasi a identificarsi.
Marie-Célie Agnant è nata ad Haiti e vive dal 1970 nel Quebec, dove ha insegnato francese e lavorato come traduttrice prima di raggiungere la celebrità come autrice di romanzi. Da sempre impegnata nel sociale, nella sua scrittura emerge l’interesse per temi «forti» come il razzismo, la condizione femminile, l’emarginazione. Ormai scrittrice a tempo pieno, ha pubblicato anche opere destinate ai ragazzi. Il libro di Emma è la sua prima opera tradotta in italiano.
«Il genio ha molte sorprese, e una di queste è la geografia» ha scritto Derek Walcott a proposito di Jamaica Kincaid. Ed è proprio la geografia di Antigua, così accecante e celeste, a permeare la prosa incantatoria del suo primo romanzo: gli alisei, i riti della pesca e dell’obeah si confondono in un’unica musica palpitante, mentre l’albero del pane e le sgargianti poinciane stonano con la chiesa anglicana, con la divisa scolastica, con i quaderni che hanno in copertina la regina Vittoria. E intanto Annie John cresce in una felice solitudine, al centro dell’universo della sua bellissima, giovane madre. Ma poi, la catastrofe: Annie «diventa signorina», e la madre, che come una divinità può dare e togliere tutto, incomprensibilmente si trasforma in un’algida nemica. «Io vivevo in un paradiso così» dice Annie dei suoi anni di bambina; ma ogni paradiso ha il suo «orribile serpente», e sarà un tormentoso duello quotidiano a scandire il suo furente ingresso nell’adolescenza.
Jamaica Kincaid, nata Elaine Cynthia Potter Richardson è una scrittrice di Antigua e Barbuda. Vive con la sua famiglia a North Bennington in Vermont.
Nel 1973 ha cambiato il suo nome in Jamaica Kincaid perché la sua famiglia disapprovava il fatto che scrivesse. La sua prima esperienza di scrittura riguarda una serie di articoli per la rivista Ingenue. Ha lavorato per The New Yorker fino al 1995.
Il suo romanzo Lucy (1990) è una descrizione immaginaria della sua esperienza di diventare adulta in un paese straniero e continua la narrazione della sua storia personale iniziata col romanzo Annie John (1985). Altri romanzi, quali The Autobiography of My Mother (1996), esplorano la questione del colonialismo e della rabbia che questo ricordo le provoca.
Ha inoltre pubblicato una raccolta di racconti, At the Bottom of the River (1983) ed una di saggi, A Small Place. Insegna scrittura creativa alla Harvard University. Ha inoltre ricevuto una laurea honoris causa in lettere dalla Wesleyan University.
Vi segnalo questo volume: La letteratura caraibica contemporanea, di Cristina Benicchi, Bononia University Press (30 luglio 2010)
Frammenti di un’epica memoria – racconta il premio Nobel Derek Walcott – compongono il complesso mondo culturale e letterario caraibico, di cui questo volume intende proporre un percorso di analisi e lettura alla scoperta di modelli, forme e autori la cui identità creativa si nutre proprio attraverso, piuttosto che nonostante, il frammentismo linguistico, culturale e geografico dell’arcipelago caraibico, rivelandosi al contempo unica e molteplice. Coinvolgendo settori disciplinari diversi – dalla Letteratura Inglese alla Letteratura Comparata, passando anche per gli studi sociologici, antropologici, culturali e di traduttologia – questa ricerca propone, inoltre, l’analisi delle più recenti teorie sugli studi post-coloniali e un profilo della cultura e della letteratura caraibica anglofona, con una particolare attenzione all’opera di David Dabydeen.
Per approfondire il tema delle letterature caraibiche vi rimando a questo link:
E a questo:
http://www.sapere.it/enciclopedia/Antille.html
Post molto bello come sempre. Segnalo uno dei miei libri preferiti per fare un “viaggio” a Santo Domingo: La breve favolosa vita di Oscar Wao.
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Grazie per il suggerimento!!! 👍
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che dirti, mi sto gustando questa pagina come non mai! passsare da te il mattino è come entrare in una libreria, sedersi bevendo un caffè e leggere legegre!! oggi le tue proposte sono molteplici e devo dire che molte proprio non le conoscevo, ma ho preso appunti. Ho un bellissimo ricordo di “Le regine dell’Avana”, un piccolo gioiello, le donne son sempre una “favola” e poi tra i due Nobel che ho letto devo confessare che preferisco V.S. Naipaul, ha una potenza evocativa straordinaria! Grazie, grazie
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Grazie a te, le tue parole sono davvero un grande premio per me. Il mondo dei libri è un universo così grande che ci offre mille possibilità di conoscenza e di piacere. Ogni angolo di mondo offre un patrimonio culturale e letterario che sarebbe davvero un crimine non valorizzare. Buona giornata e buone letture!
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sì hai ragione su tutto, leggere ci apre quelle finestre sul mondo che ci concigliano con il vivere nostro e degli altri
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e che ci aprono al mondo, alle diversità e magari ci aiutano ad essere più accoglienti….
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