Dopo un certo numero di cadute, il corpo a volte fa lo stesso rumore dei sacchi di cemento o dei libri spessi e duri tipo i dizionari, ma a volte fa anche lo stesso rumore dei bicchieri di cristallo e dei vasi di porcellana. Sono una gatta impaurita. La forchetta che cade mi inquieta. Però non dico niente, acqua in bocca. Credo di essere una buona figlia e di essere buona in generale. (pag. 33)
Cadere (titolo originale Los caídos), di Carlos Manuel Álvarez, Sur 2020, traduzione di Violetta Colonnelli, pagg. 160, copertina di Livia Massaccesi
Chi mi segue sa che sto leggendo diversi autori delle nuove generazioni, spaziando a varie latitudini, mettendo un piede in tutti i continenti. Mi serve per capire con quali occhi i giovani oggi vedono il mondo e cosa si aspettano dal futuro. Ed è in questo progetto che si inserisce il romanzo che ho appena terminato, che mi ha portato nel continente americano, verso le isole caraibiche (qui trovate un approfondimento), e precisamente a Cuba. Non la Cuba dei depliant turistici, ma quella vera, quella dei cubani che ci vivono da generazioni, che ne hanno sofferto le lacerazioni, che hanno combattuto per un ideale, ma che lo hanno visto dissolversi o quanto meno diventare altro. Quelli che hanno visto la fine di una ideologia e il vuoto immenso su cui si sono affacciati. E di come cercano di venirne fuori.
“Cadere” è una geometria polifonica: diviso in cinque parti, ognuna composta da quattro capitoli, che portano gli stessi titoli, nel medesimo ordine: Il figlio, La madre, Il padre, La figlia. Quattro voci che raccontano, ciascuno dal suo punto di vista, un pezzo della storia di una famiglia. Un discorso che ciascuno porta avanti come raccogliendo il testimone di una staffetta, mostrandoci così le varie sfaccettature di uno stesso evento, di pezzi della loro vita, dei sentimenti che la animano. Ognuno la interpreta a suo modo, e aggiunge nuovi tasselli alla narrazione, nuove versioni, o impressioni, sensazioni ripescate dalla memoria.
Le quattro voci non formano un coro, ciascuno sembra cantare per se stesso; pur vivendo sotto lo stesso tetto, ognuno sembra isolato e in stato di contrapposizione con gli altri. Come dice Philip Roth nella citazione in esergo, “Tutti abbiamo una casa. È lì che va sempre tutto storto”, e lo si intuisce fin dall’inizio, dal primo monologo del figlio, che si trova in caserma dove sta finendo l’anno di leva obbligatoria, in rottura con l’idea di patria e di famiglia, e che prosegue nei successivi. Ha diciotto anni e un rapporto conflittuale col padre, che indica sempre col nome di battesimo, come a volere mantenere una distanza:
Ho diciotto anni e sono un vecchio. Era questo che Armando mi stava iniettando, in verità. E così ti trovi a vivere gli stessi conflitti e le stesse convinzioni dei tuoi genitori. È proprio quella frattura ad averti generato, finché non ti scrolli tutto di dosso con furia. (pag.70)
Un padre che impartisce un’educazione spartana, aderente agli ideali della rivoluzione, che cita continuamente lo stesso episodio di Che Guevara, fermamente incorruttibile e contrario alla deriva dilagante, in cui la maggior parte delle persone arraffano, corrompono, nascondendosi dietro facciate rispettabili. Ideali a cui ha educato i figli in modo rigido, purtroppo non senza fallire in entrambi i casi. Col figlio, non riuscendo ad intessere alcun tipo di rapporto e spingendolo verso un atteggiamento critico verso la rivoluzione; con la figlia, ottenendo che si adatti – di nascosto – all’andazzo generale. Nonostante le batoste che ha preso, nonostante la delusione, il padre continua però a tenere fede ai suoi principi, a non farsi corrompere, a costo di compromettere la sua posizione lavorativa; è direttore di un hotel turistico a quattro stelle, ma il suo volere essere tutto d’un pezzo, oltreché incapace di vedere cosa accade sotto i suoi occhi, gli costerà caro.
Dicono che quelli erano tempi duri, ma i tempi duri davvero sono quelli in cui nessuno ha voglia di fare niente, tempi di crisi dei valori, semplicità spirituale, scarsa tenacia. (..) Mi guardano con aria ubbidiente, ma scoppiano di risentimento. Lo vedo, quando uno di loro viene a rimorchiare la mia Nissan per portarla all’hotel. Non sono neanche le nove di mattina e sono già stufi. A volte questo paese è troppo buono con la sua gente. Dà molto in cambio di molto poco. (pag. 21)
La madre, ex professoressa, si rifugia nella malattia che l’ha colpita come in una tana:
Sapevo di sapere sempre meno e che quella breccia di ignoranza e incapacità sarebbe aumentata. Ma ogni volta che sapevo qualcosa in meno, ogni volta che un nuovo concetto si rifiutava di essere nominato da me, sapevo anche che non c’era niente di meglio di non sapere. Di non poter nominare, non dire, non chiarire, non riuscire. Quella notte ho dormito serena, sotto la coperta della malattia. (pag. 116)
Il suo disperato tentativo di dissenso, nel passato e nel presente, è un tentativo di affermare la propria presenza. Nel suo incedere stentato, nelle sue improvvise crisi e cadute, si manifestano la vulnerabilità, la fragilità, il disincanto: la metafora di una società preda di malattie per cui non esistono cure. Una società che ha provato a costruire ma che si trova di fronte alla caduta. E la madre – ripensando agli anni dell’insegnamento – ne incarna il fallimento.
Per venticinque anni ho tirato su dei ragazzini che poi la vita avrebbe guastato. Mi sarebbe piaciuto dedicarmi solo ai miei figli. Ora però mi sono lasciata tutto alle spalle. Chi ho cresciuto e chi no. (pag. 45)
Eppure è lei che continua ad essere il perno di questa famiglia, è la sua malattia che gli altri cercano di decifrare e che, ad ogni caduta, li fa temere perché sanno che ogni volta è come se si fosse aperta una nuova crepa, che il corpo ferito della donna non sia altro che la loro famiglia, ferita, e che rischia di andare in pezzi. Come, del resto, la società.
La figlia sembra essere la custode dell’ordine familiare, colei che, ossequiosa alle regole familiari, preserva i valori; assiste la madre, cerca di riportare a casa il fratello, veglia sul padre. Ma è come se in lei convivessero due persone diverse, perché quando è fuori casa si comporta in modo diverso, fa quello che fanno tutti, ruba di nascosto, traffica. Persino quando suo padre diventa direttore dell’albergo dove lei lavora.
“Los caídos”, coloro che cadono, è la metafora all’interno del romanzo, come dichiarato dallo stesso autore: «Il mio romanzo è verticale, va verso il basso, come una caduta». E che si chiude con una metafora di forte impatto: i polli cannibali.
Le cause del cannibalismo tra i polli possono essere diverse: l’eccesso di calore, la sovrappopolazione degli allevamenti, soprattutto nei pressi degli abbeveratoi e delle mangiatoie, la mancanza di proteine e la cattiva alimentazione. Anche i polli deboli o scemi soffrono molto. Nella gabbia di acciaio, il vizio della noia è ereditario. E questa, la noia, è la ragione principale per cui i polli inoffensivi, i polli terribilmente inoffensivi, i polli mortalmente inoffensivi, finiscono per beccarsi tra loro, mangiandosi le viscere. (pag. 158)
Carlos Manuel Álvarez è uno scrittore cubano. È nato a Matanzas e ha studiato giornalismo all’Università dell’Avana. Nel 2016 ha co-fondato la rivista online El Estornudo. Ha vinto nel 2013 il Premio Calendario e nel 2017 è stato selezionato tra i 39 migliori scrittori latinoamericani sotto i quarant’anni nel progetto Bogotá39. I suoi testi di non-fiction sono stati pubblicati da testate quali The New York Times, The Washing-ton Post, BBC World, Al Jazeera, Internazionale.
Ciao! oggi mi hai proprio incuriosito, non conosco questo autore, e mi interessa molto conocere uan realtà come quella cubana oltre le notizie turistiche o meno, ma andando a fondo nella sua storia complicata e spesso molto difficile come anche ora! grazie sempre
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Buongiorno! Tieni presente che questo però non è un romanzo storico, non racconta con metodo i vari passaggi della storia recente di Cuba. Quello che fa è rendere gli effetti di tali passaggi sulla gente comune, prendendo a paradigma una storia familiare. E’ attraverso questi personaggi che vengono fuori le lacerazioni e le problematiche del vissuto.
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Bellissimo post, molto interessante
Passa nel mio blog se ti va 😉
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Ok!! grazie
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