I Balcani sono per me un colore, non un toponimo. I nomi si dimenticano facilmente, basta riempirsi di parole altrui, e le lettere scompaiono come zucchero sulla lingua. Ma i colori restano, come macchie sotto le palpebre, sebbene io abbia lasciato ogni sentimentalismo alle mie spalle, in un tempo lontano, a casa di mia madre. I colori non sbiadiscono con i chilometri percorsi. Una sfumatura pesante di verde, come peperoni dimenticati, secchi e rugosi, che non possono più nutrire nessuno. Un marrone triste che continua a serpeggiare come un fiume morto dopo l’apocalisse. Il colore di una mummia che i vermi hanno mangiato dall’interno. (pag. 43)

Afferra il coniglio, di Lana Bastašić, Nutrimenti luglio 2020, traduzione dal serbo di Elisa Copetti, Vincitore European Union Prize for Literature 2020

 

Come vi ho detto in un precedente post, sto leggendo dei romanzi seguendo un filone ben preciso: area balcanica, paesi che facevano parte della Jugoslavia. In questa cornice si inserisce il romanzo di cui vi parlo oggi e che ho potuto leggere grazie a Nutrimenti.

La presentazione ci informa che si tratta di un esordio letterario; lasciatemi dire: che esordio! Non è da tutti presentarsi per la prima volta sulla scena recitando come un consumato attore!

Il romanzo di Lana Bastašić mi ha colpito per diverse ragioni. La scrittura è poggiata su un linguaggio “giovane”, immediato, diretto, prossimo al parlato, attuale. Una lingua che scava a fondo, che non ha paura di guardare in faccia anche i lati spiacevoli, o scabrosi della realtà. La struttura narrativa che alterna il presente del viaggio al passato dei ricordi e del vissuto che hanno portato al viaggio, rende il fluire del racconto incalzante: si intuisce che bisogna risalire nel passato, andare a rimettere insieme ogni tassello per comprendere la polarità dell’amicizia oppositiva tra le due protagoniste.

Per me la memoria forse era un lago ghiacciato, opaco e scivoloso, e sulla sua superficie di quando in quando compariva una fessura attraverso la quale riuscivo a infilare una mano e afferrare un dettaglio, un ricordo nell’acqua fredda. (pag. 82)

La citazione in esergo da Alice nel paese delle meraviglie offre una chiave di lettura del procedere narrativo con cui l’autrice ci accompagna nel suo romanzo: anche lei, come Alice, era un’altra persona – o forse, pensava di esserlo – prima che una telefonata le rimettesse di fronte la lei del passato. Ma per capirlo, bisogna seguirla nella sua avventura, il viaggio che la strappa dalla sua realtà ormai addomesticata della Dublino dove si è rifugiata, dopo avere lasciato la Bosnia, e dove ha un compagno, una casa, delle abitudini, e che la riporta esattamente là, dove era la sua vita di prima, ma soprattutto a confrontarsi con la persona che più ha contato nella sua vita, l’amica, o ex-amica, Lejla, a cui è legata da un complesso rapporto di dipendenza.

Un rapporto che risale alla loro infanzia, a partire da quel primo giorno di scuola delle elementari in cui lei e Lejla erano le uniche a non piangere al momento di staccarsi dalle madri ed affrontare il primo giorno di scuola. In cui bastò uno sguardo per scegliersi, per delimitare un perimetro che stabiliva un confine: da una parte loro due, dall’altra tutti gli altri.

Un’amicizia che le ha tenute unite per tutti gli anni di scuola, fino al primo anno di università quando qualcosa si è rotto tra di loro, e si sono allontanate, perse di vista in modo definitivo. O almeno, definitivo fino a quella telefonata, dopo dodici anni, in cui è bastato sentire la voce dell’amica riemergere dal passato ed evocare il nome del fratello, per fare tornare tutto alla ribalta. Loro tre, il passato della guerra in Bosnia, le famiglie, il loro rapporto contorto tenuto insieme da un equilibrio tra forze disomogenee.

Sara, la protagonista voce narrante, porta il lettore nel loro mondo, procedendo su due binari: il presente del road trip che intraprendono insieme, e il passato riesumato pezzo per pezzo attraverso i ricordi, un insieme di immagini, di sensazioni, di eventi condivisi che hanno segnato le loro vite insieme. Quindi, è come se avessimo su un piano, un romanzo on the road, denso di imprevisti e di avventura, e sull’altro un romanzo di formazione, tenuti insieme dalla necessità di Sara di capire cosa sia stata la loro amicizia, di cosa ne sia sopravvissuto e di cosa possa essere ora. E di rivedere una persona che pensava scomparsa per sempre.

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Lejla telefona a Sara, con lo stesso tono di chi si è sentito appena il giorno prima, e le chiede di mollare tutto, di raggiungerla a Mostar – dove lei ora vive – e di accompagnarla in auto fino a Vienna. Alle rimostranze di Sara, al suo recalcitrante tentativo di opporsi, a Lejla basta opporre un nome: Armin, suo fratello, sparito al tempo della guerra in Bosnia, e di cui Sara era ingenuamente innamorata come lo sono le adolescenti, è ricomparso a Vienna.

Ma forse non è nemmeno solo questo il vero, o l’unico motivo a fare sì che Sara decida immediatamente di partire: quell’amicizia interrotta repentinamente, quell’assenza dalla sua vita della persona che era il suo baricentro, è una ferita che ancora sanguina, che ha bisogno di essere curata con delle risposte alle tante domande rimaste in sospeso, un bisogno di chiarezza, il ricucire uno strappo che ha provocato tanto dolore.

Mentre Sara, dopo la laurea in lettere, ha realizzato il suo percorso di scrittrice e traduttrice, cosa ne è stato di Lejla? Come è stata la sua vita fino a quella telefonata?

La vita per Lejla era una volpe rabbiosa che viene di notte a rubarti il pollame. Scrivere della vita secondo lei significava fissare una gallina fatta a pezzi il giorno dopo, senza la possibilità di acciuffare la bestia all’opera. (pag. 19)

E, poi: è ancora la stessa persona, o è cambiata? E cosa si aspetta da questo viaggio insieme? Domande a cui Sara in fondo vuole dare delle risposte ed è disposta ad accettare ancora una volta le regole del gioco imposte dalla sua amica, perché o si fa come dice lei, o non si fa niente. Lejla, che ha sempre avuto questo atteggiamento di superiorità, una spavalderia tagliente e sprezzante, quel modello a cui Sara ha guardato per tutti gli anni trascorsi al suo fianco, è ancora in grado di farla scattare come una molla, e nonostante Sara sia molto combattuta in una continua altalena di attrazione e repulsione, alla fine deve arrendersi a non potere fare a meno di lei; lei che con una semplice frase demolisce ciò che Sara ha faticosamente tentato di costruire; lei che la riporta nell’oscurità della Bosnia, dove nemmeno in pieno giorno la realtà riflette la luce; lei che la getta in pasto ad un passato e ad un difficile rapporto con i genitori.

Home non è la Bosnia. La Bosnia è un’altra cosa. Un’ancora arrugginita in un mare di piscio. Ti pungi costantemente col tetano, anche se sono trascorsi tanti anni. (pag. 30)

La Bosnia, Banja Luka,  che non è più quella dei ricordi di infanzia; ora è altro, è un corpo ferito attraversato da una guerra fratricida, dove le persone sparivano, e non se ne sapeva più nulla, o venivano ritrovate cadavere, lungo i bordi di un torrente. Dove le persone cambiavano il proprio cognome nel tentativo di mimetizzarsi. Come Lejla Begić, che diventa Lela Berić.

Ricordo che la città era diversa. (..) L’oscurità si allargava come se un bambino dispettoso la versasse su di noi. I miei concittadini ricevettero insperatamente un nuovo volto. Alcuni aggrottarono la fronte un’unica volta e rimasero per sempre in quella posizione. Altri sparirono del tutto, se ne andarono senza far troppo rumore. Più tardi ho imparato a mentire agli stranieri. Ero piccola, dicevo, non ero consapevole di quello che stava succedendo. Ma non è vero, lo sapevamo tu e io. Sapevamo che era cominciata, che l’avevano cominciata. Sapevamo anche che sarebbe durata. (pag. 72)

E il coniglio? Il bianco coniglio di Alice e il bianco coniglio di Lejla. E un dipinto. Queste sono le uniche tracce che vi lascio, a proposito del coniglio, per la caccia al tesoro che vi aspetta se decidete di leggere il romanzo: dovrete arrivarci da soli, ad afferrare il coniglio!

In conclusione, un romanzo che ho letto tutto di fila, senza potere smettere perché sa catturarti, sa tenerti sulle spine per spingerti a voltare le pagine, una via l’altra, per l’urgenza di capire, di sapere. Come Sara deve prendere in mano il filo che Lejla le ha lanciato e ri-arrotolarlo fino a completare il gomitolo, anche tu, lettore, ti aggrappi alle parole e alle pagine, per rincorrerle una dopo l’altra e completare il viaggio che porta fino a Vienna.

Mi è piaciuto questo romanzo che parla dell’amicizia tra due donne, mettendo a nudo le complessità ma anche quello zoccolo duro sedimentato sulla sorellanza, quella capacità di condividere anche le esperienze più intime, con naturalezza; e che affronta un contesto storico che non è cornice, ma sostanza stessa della storia narrata, quell’imprescindibile mannaia che è calata su persone e città e che ha lasciato solchi profondi.

Lana_BastašićLana Bastašić, bosniaca, è nata nel 1986 a Zagabria, ma è cresciuta a Banja Luka. Ha pubblicato due raccolte di racconti, un libro di storie per bambini e una raccolta di poesie. Con Afferra il coniglio, suo primo romanzo, ha vinto l’European Union Prize for Literature 2020 ed è entrata nella selezione finale del Premio Nin, il più importante riconoscimento letterario per opere in lingua serba. Vive a Barcellona.

Qui potete leggere l’incipit.