Le stava parlando del buio: quei giorni (i suoi giorni) si preannunciavano più lunghi e più bui. Camminava per le strade e aspettava, guardava, sapeva. Erano i verbi di mia madre: Aspettare. Guardare. Sapere. Da bambina la pregavo di raccontarmi quella storia che aveva per protagonisti persone che conoscevo, di soffermarsi sui dettagli, di ripeterli, e mia madre lo faceva ogni volta, raccontando la storia al presente, con lo sguardo lontano, che riandava a quel luogo in cui tutto succedeva di nuovo. (pag. 46)

La sottrazione, di Alia Trabucco Zerán, Edizioni Sur 2020, traduzione di Gina Maneri, pagg. 186, Finalista al Man Booker International Prize

La prima cosa che mi ha colpito, aprendo il libro, è stata la numerazione dei capitoli; si parte con un “11”, e la voce narrante si esprime con un flusso di pensieri che, dalla prima all’ultima riga, dispiega un esercito di virgole, punti e virgole, punti di domanda, ma il tanto sospirato punto arriva solo alla fine, una lunga autostrada di parole da percorrere tutta d’un fiato, una sfilza di pensieri che saltano, si rincorrono, si aggrovigliano. Così nell’incipit, uguale nell’explicit. Poi arriva il secondo capitolo: due parentesi che avvolgono il vuoto, un’altra voce narrante, un altro registro. Si delinea così la struttura del romanzo: capitoli alterni, due voci che si avvicendano, due registri completamente diversi.

Nei capitoli numerati (in ordine decrescente) parla Felipe, in quelli “tra parentesi il vuoto”, a parlare è Iquela.

Le voci di Iquela e Felipe contrastano con eleganza, completandosi e contraddicendosi a vicenda per spiegare due modi diversi di affrontare il dolore, un dolore che si estende lungo le generazioni, quelle dei genitori e dei figli che hanno vissuto il regime di Pinochet. Se i primi ne sono usciti spezzati o sono scomparsi o sono morti, i secondi cercano un modo per superare questa ombra che si allunga fino sul futuro. È un romanzo sulla difficile trasmissione di un’eredità politica, su ciò che una persona decide di dimenticare e su ciò che sceglie di ricordare.

Santiago del Cile

Il ritorno di Paloma a Santiago del Cile, così come la notizia della morte di sua madre, Ingrid Aguirre, esiliata dalla dittatura e membro della Resistenza cilena, riporta alla luce i fatti della gioventù di Consuelo (ex compagna militante e madre di Iquela).  

La memoria di mia madre era come una carta geografica dei suoi morti, ed eccola lì, aperta davanti a Paloma per consentirle di orientarsi senza problemi. (pag. 49)

Paloma e Iquela si erano incontrate una volta, quando erano bambine, in una serata a casa dei genitori di Iquela durante lo spoglio del plebiscito cileno del 1988 (atto previsto dalla nefasta costituzione cilena del 1980), indetto in Cile il 5 ottobre 1988 per determinare se il popolo volesse conferire ad Augusto Pinochet un ulteriore mandato di 8 anni come presidente della Repubblica (del come ci si era arrivati, ho spiegato qui). Già durante quel primo contatto, Paloma era apparsa a Iquela una ragazzina anticonformista e trasgressiva. Un incontro che lasciò un segno forte nella coscienza di Iquela.

Santiago del Cile vulcano nube

Paloma, dalla Germania, organizza tutto per il rimpatrio della salma della madre, ma, all’atterraggio, la informano che la bara con il cadavere è diretta a Mendoza; non avevano condiviso lo stesso volo, quello con la bara sarebbe dovuto atterrare il giorno successivo ma un’eruzione vulcanica, con conseguente pioggia di cenere, ha bloccato l’aeroporto e ricoperto la città, trasformandola in un paesaggio grigio, quasi lunare. Da questo momento inizierà per lei, Iquela e Felipe un compito difficile: ritrovare il corpo di Ingrid per poterlo riportare al suo luogo di origine, Santiago del Cile. Determinati a recuperare il corpo, viaggiano su un carro funebre fino a Mendoza, al di là della Cordigliera, in Argentina. 

Iquela e Felipe sono stati toccati dalla morte, dalle ombre che la dittatura getta sulle loro biografie. Rodolfo, il padre di Iquela, fu arrestato e, sotto tortura, fece il nome di Felipe, il padre di Felipe, che sparì. La madre di Iquela si prende, per questo, l’impegno di accudire Felipe, che diventa per lei un altro figlio. Felipe, ossessivo e delirante, aspira a un numero perfetto, una cifra che serva da chiusura, che lo liberi dal peso insopportabile di chiamarsi come suo padre. Gira per Santiago sottraendo i morti attraverso complicati conteggi. In ogni angolo, su ogni ponte e in ogni piazza, osserva i molteplici modi in cui la morte è rappresentabile; morti veri o immaginari, senza volto, a faccia in giù, buttati sul marciapiede, “morti ribelli”, ancora caldi “ancora indecisi tra restare da questa parte o lanciarsi dall’altra”, in una serie di visioni allucinate. E lui, assumendosi il compito di calcolatore umano della Morte, conduce la sua vita quotidiana cercando di fare quadrare l’aritmetica dei morti, in un flusso di pensieri irrazionale e delirante.

Diceva la mia nonnina Elsa, che un pezzetto di lei era morto dopo la storia di mio papà, il mio povero Pipecito, diceva, l’unica cosa che mi hanno restituito è stato il suo nome in una lista, ed è vero, io l’ho visto l’elenco e il suo nome e il mio cognome e anche un codice fiscale e la somma dei suoi anni, trent’anni, un numero perfetto per la sottrazione, anche se io non l’ho sottratto perché quello che non esiste non si sottrae, io sottraggo corpi, non cognomi, anche se chissà, magari l’ha sottratto qualcun altro e io non mi ricordo, io e la mia memoria piena di buchi. (pag. 55)

Più contenuta e razionale, meno legata a congetture aritmetiche quanto piuttosto a quelle linguistiche – lei è una traduttrice -, Iquela cerca un modo per affrontare la sua eredità, una storia che le impedisca di recitare nella propria vita. Compressa tra la voglia di liberarsi del passato e la necessità di accettarlo, vive in bilico, attenta a non cadere nel vuoto aggrappandosi alle parole, all’esattezza delle parole, declinate nei possibili sinonimi, un elenco che recita per trovare quella in grado di definire la realtà che le sta di fronte. Diverse immagini la riportano al passato: come la notte del plebiscito e la sua prima sigaretta con Paloma, gli echi delle frasi dei grandi e una pioggia di cenere, anche quella sera, allora come adesso. Porta con sé i sensi di colpa e le paure di sua madre, rappresentandosi nel presente come il fantasma di una dittatura che non ha vissuto pienamente.

La sottrazione è un romanzo che si costruisce a partire dai simbolismi, ovvero ogni gesto e oggetto non è casuale: specchi, morti viventi, polli, ceneri e il carro funebre funzionano come analogie della società cilena degli ultimi quarant’anni. Il romanzo deve essere letto utilizzando delle chiavi di decodifica, perché ogni paragrafo può contenere delle metafore. Ad esempio, le ceneri potrebbero essere intese come i postumi di una dittatura che continua a determinare la realtà attuale. Il fuoco è stato momentaneamente spento, però, quella polvere che copre tutto è la costituzione degli anni Ottanta, voluta da Pinochet: è stato necessario andare al voto referendario del 25 ottobre 2020, quando l’80% circa degli abitanti del paese risponde “Apruebo” alla domanda: “¿Quiere usted una Nueva Constitución?”, per dare così vita, finalmente, al processo che vedrà la scrittura di una nuova Costituzione, entro il 2022. Il romanzo non è rappresentato da immagini letterali, ma si esprime attraverso simbolismi che il lettore deve decifrare soggettivamente.

Davanti a noi, come un’apparizione, la cordigliera, che ci sorvegliava da sempre. Commentai il cielo opaco, i campi sepolti sotto la polvere, il vento che aveva assunto una consistenza visibile (un sudario grigio su Santiago). Avevo bisogno di confermare a me stessa che stavo partendo, è un viaggio, succede davvero, mi dissi, e spinsi il carro funebre al limite delle sue possibilità, un fremito nuovo alla bocca dello stomaco. (pag. 98)

La città di Santiago appare come ricerca e fuga, come bisogno e rifiuto; insomma, la città mantiene una tensione di appartenenza con i protagonisti delle diverse generazioni. E quando partono per Mendoza, la limpidezza del cielo argentino sembra loro atroce, l’aria persino troppo pura. Il desiderio di rivedere il paesaggio cileno cinereo, causato dall’esplosione di un vulcano, sovrasta Iquela. Questa immagine diventa metafora della vita di Santiago: “Un sudario grigio su Santiago“.

Santiago pioggia-di-cenere

Diversi autori della narrativa cilena contemporanea si sono dedicati alla creazione di testi che raccontino le esperienze dei bambini durante la dittatura (penso a Kramp, di María José Ferrada, o ai racconti di C’era una volta un passero, e Il sistema del tatto di Alejandra Costamagna, a Chilean electric e Mapocho di Nona Fernández). Si tratta di autrici e autori, nati tra gli anni Settanta e Ottanta, che hanno vissuto in famiglia o nella comunità prossima un’infanzia e un’adolescenza caratterizzate dal silenzio o dal terrore, da omissioni o da menzogne, dalla complicità o dalla resistenza nei confronti della dittatura. Gli scritti che nascono da questo tema sono molto simili tra loro, laddove si cerca di fare i conti con il passato personale e quello socio-politico del paese; tema che ritroviamo in questo romanzo, tuttavia, lo stile di scrittura di Trabucco Zerán si esplica con un approccio diverso. I suoi capitoli numerati discendenti e i monologhi frenetici rompono con gli schemi già costruiti. Contrariamente a quanto accade ad esempio con la narrazione di Fernández, dove la gestione delle allusioni, il detto e il non detto, offrono un codice di interpretazione della realtà al lettore e il piacere della lettura, il romanzo di Trabucco, a mio parere, ha lunghi passaggi in cui diventa noioso, e il lettore rischia di rimanere come seduto su una panchina ad aspettare un treno che non passa. I capitoli di Felipe sono un fantasmagorico flusso di coscienza che, se all’inizio spiazza, mantiene però la sua coerenza e, nelle sue visioni allucinate si riconosce il dolore di un passato che è impossibile cancellare. Più difficile, per me, fare i conti con la voce di Iquela, con le sue ossessioni e manie, i salti avanti e indietro nella memoria. Mi aspettavo molto dal viaggio a Mendoza, che poteva essere il punto di svolta, tuttavia, non lo è del tutto. O meglio, lo è per come si svolge e si compie, ma è lo stile, ancora una volta, a offuscare l’impatto sul lettore (almeno, per me). Di grande impatto sono, invece, le immagini particolarmente evocative dentro l’hangar dell’aeroporto in cui sono contenute centinaia di bare di persone che devono trovare un posto dove finalmente riposare, così come la fuga simbolica di Felipe.

Dunque, il romanzo si compone attraverso la giustapposizione di ossessione e selezione: l’ossessione di Felipe di contare i morti per venire a capo di una logica che non quadra mai, e la selezione delle parole di Iquela, che mette in fila le parole per inseguire i significati che assumono valenze diverse e non riescono ad offrire una lettura unica della realtà.  

E il valore delle parole ci viene suggerito anche dal titolo, soprattutto nell’originale, La Resta che indica sia l’operazione matematica della sottrazione quanto il resto, il residuo, a cui si lega anche l’allusione ai resti umani, i corpi, che nel romanzo hanno un ruolo primario. La traduzione in italiano La sottrazione mantiene una discreta fedeltà all’ambivalenza, pur spostando di poco la messa a fuoco del concetto: l’operazione matematica e il furto (che si spiega perfettamente nell’epilogo, ma che è alluso in senso più ampio, il furto di futuro ad intere generazioni).

Alia-Trabucco-Zeran

Alia Trabucco Zerán (1983) è una scrittrice e saggista cilena. Dopo un master in scrittura creativa alla NYU, si è dottorata in letteratura latinoamericana presso lo University College di Londra. La sottrazione è il suo primo romanzo, selezionato come miglior esordio dal Consejo Nacional de Chile e da Babelia – El País, finalista al Man Booker International Prize.

Qui potete leggere l’incipit. Qui potete leggere una interessante intervista all’autrice da parte della sua traduttrice in inglese.