Ilaria aveva bisogno di una madre come te, al suo fianco. Io non ce la faccio a strapparla alle sue insicurezze. Ho cercato di imitarti, scimmiottandoti, e in questo modo ho dato il meglio di me a mia figlia, facendole godere le tue briciole. Ma non sono neanche la più piccola parte di te, noi siamo sempre state troppo, troppo diverse.
Quello che non sai, di Susy Galluzzo, Fazi editore 2021, pagg. 268
Il romanzo d’esordio di Susy Galluzzo è uno di quelli che lasciano il segno. Un romanzo dai toni intimistici, che non ha paura di affrontare temi delicati senza ipocrisie. Ambientato nella Roma bene, racconta le vicende di una famiglia agiata, che vive la sua quotidianità in apparente felicità e armonia, nascondendo però, dietro la facciata della famiglia perfetta, turbamenti profondi. Protagonisti sono Ella che lavora part time in un laboratorio di analisi e si occupa di Ilaria, la figlia adolescente, e Aurelio cardiochirurgo in carriera.
Il racconto è una lunga confessione in forma di diario in cui la protagonista si rivolge alla madre, a quindici anni dalla sua morte. Una morte che, oltre a lasciare un vuoto di affetto e di presenza, accade in modo tragico, diventando un fardello che la protagonista dovrà portare sulle sue spalle per sempre, e che avrà un ruolo determinate nella sua vita. Quella madre idealizzata, amata e, infine, cercata nella sua assenza, è il primo mattone nel muro che Ella costruisce nella vita, un muro di separazione tra lei e la figlia, un muro all’origine di tutte le lacerazioni che seguiranno.
Sai, ho sempre pensato, fin da piccola, man mano che mi rendevo conto del legame che c’era tra noi, che mi nutrivo di te, Mamma, che una volta che tu fossi morta avrei pianto ogni minuto della mia vita, ogni singolo attimo, che nelle mie lacrime avrei annegato il dolore. Non è successo. Quelle lacrime non sono mai arrivate. (..) Ho iniziato a pensare che fosse una specie di punizione e che in quell’assenza di pianto la gente potesse riconoscere la mia colpa. E ora, invece, grazie alla crudeltà di mia figlia, era arrivato quel pianto a consumarmi. (pag.205)
Il romanzo è un flusso di pensieri, in tono confidenziale, un lungo colloquio in cui Ella riallaccia un rapporto a distanza con la persona che probabilmente ha più amato, che ha impresso un marchio incancellabile nella sua vita. La madre a cui, nel precipitare degli eventi, ritorna come si torna ad un rifugio accogliente, andando nel suo appartamento ormai vuoto della sua presenza. Il loro rapporto assume un significato di ponte tra maternità: quella che Ella ha sperimentato con la madre, e quello che Ella vive sulla sua pelle con la figlia Ilaria. Non ultimo, quello che suo marito Aurelio ha vissuto con sua madre, la donna che mai ha accolto la nuora e che agirà un ruolo decostruttivo nello svolgersi della storia.
Il tema centrale è il senso di colpa, un altro ponte che collega i sentimenti tra Ella e la madre e tra Ella e la figlia. Ella vive i suoi sentimenti come un fiume in piena capace di travolgerla, tenendosi aggrappata con le unghie all’amore per la figlia ma sovrastata da un generale senso di fallimento.
Il romanzo si apre su una scena cardine. Ella (Michela) va prendere la figlia tredicenne al tennis, la aspetta con Duccio, un labrador nero con gli occhi nocciola, perché come al solito è in ritardo. Mentre la figlia attraversa la strada messaggiando col cellulare, una macchina quasi la investe. Lei osserva tutta la scena dall’altro lato della strada, è come paralizzata, potrebbe urlare, precipitarsi in strada, ma non lo fa, non fa nulla. Il cane invece avverte il pericolo e abbaia. Ilaria si sposta, evita l’impatto cadendo a terra, è illesa ma resta scossa. Per il comportamento della madre.
«Se Duccio non avesse abbaiato, sarei finita sotto quella macchina», le dice mentre sua madre le disinfetta la mano a casa.
Questo fatto insinua tra loro una crepa, che, nel precipitare degli eventi successivi, diventa una voragine, un vuoto in cui Ella precipita e che l’autrice va a scandagliare a fondo, guardando in faccia il lato più oscuro della maternità, quel groviglio di sentimenti contrastanti inconfessabili, capaci di mandare in crisi un rapporto che sembrava potere continuare su binari consueti.
Una volta tornate a casa, Ilaria scappa dalla nonna paterna. Aurelio, il marito, è perplesso, ha perfettamente colto il turbamento della figlia ma, allo stesso tempo, non riesce a comprendere quello della moglie; le rinfaccia di non avere fatto nulla, creando un ulteriore motivo di scontro, sebbene tra loro i rapporti fossero già compromessi dalla diversità di vedute sul modo di educare e crescere la figlia e sulle scelte di vita di Ella.
Ilaria è una ragazzina fragile, soffre di ansie ed è affetta da disturbi ossessivi compulsivi, che la costringono ad una routine ferrea da rispettare per non cadere in attacchi di panico; routine che la madre asseconda con amore ma anche con un continuo stato d’animo di apprensione; il marito disapprova il suo comportamento che ritiene inutilmente protettivo nei confronti della figlia, che per lui è una “normale” adolescente, che vive le ansie e le insicurezze tipiche della sua età e che lui stesso da ragazzino ha vissuto, superandole nella vita adulta. Ilaria fatica a scuola, il liceo classico a cui suo padre l’ha costretta ad iscriversi, e questo non fa che amplificare il senso di inadeguatezza che la opprime; l’unico ambito in cui ottiene sollievo è il tennis, che pratica a livello agonistico e che la aiuta a credere in sé.
«Sai cosa penso, Ella? Che tu sia delusa dal fatto che tua figlia non sia brillante come lo eri tu. Anche io avevo delle difficoltà a scuola, ma le ho superate. E può farcela anche lei con il giusto sostegno. Mi dispiace, ma non tutti siamo geniali come te, abbiamo i nostri tempi». Pag. 62
Dal racconto di Michela emerge quanto ciascuno di loro sia prigioniero in una gabbia di sentimenti contrastanti, repressi o elusi, che crea un cortocircuito continuo, una forza respingente che li allontana. Ilaria si rifugia tra le braccia di una nonna paterna che vive la situazione come una sorta di riscatto personale nei confronti della nuora, e di un padre che ha ormai tracciato una frattura netta con la moglie.
Sollecitati dagli insegnanti che rimarcano le difficoltà scolastiche di Ilaria, e su pressione di Michela, finalmente e per intercessione del padre, Ilaria accetta di andare da una psicoterapeuta. Ma quello che poteva essere l’elemento di svolta nel superare le difficoltà della ragazzina e nel ricostituire l’unità del nucleo familiare, si rivela invece un ulteriore elemento disgregativo e conflittuale, in quanto Michela prova un’enorme gelosia nei confronti della terapeuta, che riesce a conquistare la fiducia della ragazza e a farle fare significativi progressi, ma che lei vive come un usurparle il ruolo di madre.
«Ilaria può essere molto aggressiva, Rebecca. Non sa quanto. E come può immaginare, sono io il suo bersaglio principale. Io amo profondamente mia figlia, ma non è facile, non è mai stato facile. Mi sono sempre sforzata al massimo che potevo. Le ho dato ogni cosa che potevo. Ho fatto quello che potevo per convincere mio marito a portarla qui, da lei. E invece ora lei mi sta dicendo che ho sbagliato tutto?», stavo tremando come una foglia, non riuscivo a calmarmi. (pag.115)
Il romanzo mette in luce le contraddizioni e le difficoltà di una donna che fatica a lasciarsi alle spalle il ruolo di figlia, bruscamente interrotto dalla morte della madre e legato al trauma ad essa collegato, e il ruolo di madre in cui ha investito tutte le sue energie, in un rapporto simbiotico che ha assunto una connotazione conflittuale, mettendo a dura prova la sua lucidità e terrorizzandola ogni volta che, in situazioni limite, ha visto il lato oscuro di sé.
Il confronto-scontro con la psicoterapeuta è il turning-point che spiana la strada verso una messa in discussione di se stessa e del suo ruolo di madre, e nel rapporto col marito.
Capito, ho ripetuto dentro di me. Capito. Capito che non ne posso più di voi due, di questa situazione, di questa santa alleanza. Il papà buono che difende la figlia sfortunata dalla madre idiota. Andatevene pure, andatevene. Respiro quando non ci siete. È la verità, Mamma, respiro senza l’oppressione di Ilaria e lo sguardo saccente di Aurelio. pag. 111”
La trama del romanzo è tenuta perfettamente in tensione da una scrittura attenta e fluida, capace di procedere passo passo in modo coinvolgente, intrappolando il lettore che si sente parte di questa situazione claustrofobica. Lo scavo psicologico che Michela opera su di sé, il volere sezionare le sue emozioni fino a farsi male sono magistralmente condotti dall’autrice, che senza falsi pudori e al di là dei luoghi comuni sulla maternità – come ben anticipato nella citazione in esergo -, costruisce una storia che non ha paura di affrontare anche gli aspetti più dolorosi del rapporto madre-figlia.
Non so spiegarti, Mamma, ho avvertito un distacco netto tra di noi, come se avessi espulso da dentro di me ogni cellula, atomo o minima parte che mi lega a lei. E insieme a ciò ogni minimo afflato, legame, attaccamento che ci teneva unite. (pag.163)
Susy Galluzzo è nata in Calabria ma vive a Roma da molti anni. È laureata in Giurisprudenza e svolge la professione di avvocato. Ha iniziato a scrivere questo libro dopo la scomparsa della madre.
Letto da poco, bello e doloroso
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Molto profondo e coinvolgente.
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