Le storie sulle origini complicate non si potevano sempre capire, né raccontare sfilandole come bandoli da una matassa. Soprattutto se le origini non erano più terraferma, ma un luogo oscuro e pericolante che attirava con i suoi richiami talvolta inopportuni e molesti, talvolta vitali e necessari. Amila lo sapeva bene. (Pag. 186)

La mia casa altrove, di Federica Marzi, Bottega Errante Edizioni 2021, pagg. 336

Da qui è difficile partire, ma anche andarsene per tornare (Ivo Andrić, Sentieri, da Racconti di Sarajevo).

In questa frase di Ivo Andrić – autore che non a caso fa capolino tra le righe – si riassume molto di quanto il bel romanzo d’esordio di Federica Marzi racconta attraverso le storie che si dipanano nelle sue pagine. Ambientato a Trieste, emblematica città di confine, terra di approdi e drammatiche partenze, La mia casa altrove intreccia due destini.

Due storie apparentemente parallele, destinate invece ad incrociarsi durante un’estate: la giovane Amila, bosniaca e profuga a Trieste a causa delle guerre balcaniche degli anni Novanta, e Norina, anziana italiana istriana, arrivata a Bristie, vicino a Trieste, durante l’esodo degli anni Cinquanta. Col respiro della saga familiare e l’ampiezza di una pagina di Storia, questo romanzo prende per mano il lettore e lo tiene saldo fino all’ultima pagina.

L’orizzonte temporale si apre su un presente dei primi anni Duemila, ma poi, lungo i capitoli, risale a ritroso attraverso dei flash back che fanno luce su un passato doloroso, per entrambe le protagoniste. Nel versante di Norina, bisogna tornare fino agli anni Cinquanta, e cioè al 1954, quando ebbe luogo l’esodo di massa degli italiani dovuto all’assegnazione della zona B del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia, col Memorandum di Londra. Migliaia di italiani dovettero lasciare le loro case (tuttora aperta la questione delle persecuzioni) per approdare a Trieste, e da qui prendere strade verso le più disparate direzioni, come avviene nella famiglia di Norina: lei e i genitori rimangono a Trieste, in cerca di una normalità di vita che, vista dalle ristrettezze del campo profughi in cui trovano rifugio, sembra molto lontana; la sorella, invece, tenta la fortuna imbarcandosi per l’Australia, un salto nel buio per lei, un gesto definitivo e disperante per i familiari. In particolare per Norina che si vede abbandonata dalla sorella, da un ragazzo conteso e da un destino che lei non ha saputo scegliere ma che sentiva suo di diritto.

Nel versante di Amila – un nome di origine araba che però si assimila bene all’italiano, al contrario del cognome che la identifica subito come rifugiata – la fuga è avvenuta nel decennio ’90, quando la sua cittadina bosniaca Zvornik viene assimilata alla Repubblica serba di Bosnia. Il padre, un maestro di scuola, capisce in tempo quale piega prenderanno gli eventi e fugge con la moglie e due figlie, abbandonando casa e ogni bene, se non quel poco che riescono a caricare su un camion che riesce a varcare la frontiera.

La storia delle due protagoniste, però, emerge pian piano durante il dipanarsi della storia nel tempo attuale, man mano che diventa essenziale capire cosa è accaduto sia a livello pubblico che privato nel passato; brava l’autrice a costruire tassello dopo tassello il loro passato e gli avvenimenti che le hanno segnate, seguendo il filo di un destino che le ha fatte incontrare, disvelando a poco a poco.

Norina, ormai anziana, vive col marito malato e ha bisogno di una compagnia in casa; Amila – ventenne – vuole passare le vacanze estive a Trieste per andare al mare e fare ciò che i giovani fanno di solito in vacanza, mentre i genitori, come ogni anno, trascorrono le ferie a Sarajevo. Dunque si concretizza l’incontro tra due donne che hanno in comune due patrie: quella di nascita e quella dove sono arrivate non per libera scelta, ma che, ciascuna a suo modo, ha fatto propria. Non senza, però, sentire la mancanza della prima, perché è difficile vivere senza un passato, senza un luogo a cui sentirsi legati perché è lì che stanno le radici familiari.

Scavare nel passato, nelle scelte, nel destino che ciascuno si è trovato ad affrontare è sempre un percorso tortuoso e spinoso, una serie di passaggi che scavano nell’interiorità delle persone, che sollecitano emozioni e generano sentimenti talvolta contrastanti. Per chi cerca nel cambiamento un possibile miglioramento e per chi invece ci vede solo una sfilza di rimpianti; per chi piange per ciò che ha perso, e per chi spera nel meglio in ciò che ha trovato. E per chi, invece, deve capire cosa è successo, e cerca risposte che rimangono celate dietro la cortina del silenzio, della rimozione. Attraverso le storie di Norina e Amila vediamo tutti questi colori brillare e mescolarsi come su una tela per comporre il quadro di un’umanità in movimento, quel flusso di persone che il destino – nascere in un determinato luogo, in un certo periodo storico – ha messo in cammino per destinazioni e vite tutte da realizzare. Persone che sommano in sé identità molteplici, che si esprimono su piani linguistici plurimi, andando a sovrapporre lingue del passato con quelle del presente, quelle di nascita e quelle acquisite, creando un amalgama fluido, una contaminazione in continuo divenire.

Le tornò in mente un racconto di Andrić che aveva letto alle medie e poi riletto alle superiori. Secondo papà Željko era stato troppo presto per lei, non avrebbe potuto capire. Ma lei aveva capito benissimo perche parlava di bambini e ragazzi che restavano e di altri che non tornavano.

“Tu tornerai di certo. Mentre io resterò per tutta la vita con il ricordo della Bosnia, come di una malattia contratta, non lo so bene, se per il fatto che sono nato e cresciuto in Bosnia o perche ho deciso di non farci più ritorno. Ma è lo stesso.”

Amila si era sentita scossa da quella frase, come per un segno impresso nella sua vita. Una domanda senza risposta, se non che tutto faceva lo stesso. (Pag. 260)

Amila ha un conto in sospeso col passato, un vuoto di conoscenza che sente il bisogno di colmare per avere una visione più nitida, anche se dolorosa, di sé e del passato; il silenzio, la rimozione non mettono in pace con se stessi, e soprattutto non aiutano a costruire il futuro. E proprio verso il futuro il suo sguardo vuole indirizzarsi, per scrivere nuove pagine della sua storia.

Le sembrava che ciò si potesse chiamare stranezza. O, meglio, stranieritudine, che nel suo caso si sarebbe dovuta scrivere con due “t”. Un misto di stranieraggine e rettitudine. Quella era lei. C’era tutto lì dentro, di sé, della sua famiglia, della sua storia. Voleva sapere che cosa fosse l’inquietudine dell’indecisione, del volere ma non riuscire mai a prendere una direzione netta. Eppure non si poteva vivere andando contemporaneamente in due direzioni, questo era chiaro. (Pag. 278)

La giovane Amila, proiettata verso il futuro per costruire il quale ha bisogno di scavare nel passato; l’anziana Norina, impantanata nel passato per fuggire dal presente e struggersi per un futuro negato. Due facce della stessa medaglia, quella che ritrae chi è segnato dal trauma della separazione: dalle radici, dall’amore, dalla memoria; ma che non rinuncia alla possibilità di un nuovo inizio.

E così, tra il cielo il fiume e le montagne, una generazione dopo l’altra imparava a non compiangere troppo ciò che la torbida acqua si portava via; ché la vita è un miracolo impenetrabile perché si fa e disfà incessantemente, eppure dura e sta salda, come il Ponte sulla Drina.

Ivo Andrić

Federica Marzi (1974) è nata e vive a Trieste, dove si dedica all’insegnamento delle lingue straniere e alla scrittura. Suoi racconti sono apparsi su antologie e riviste in Italia, Croazia e Bosnia. La mia casa altrove è il suo romanzo d’esordio. Qui potete leggere l’incipit.

Se volete conoscere altri romanzi che raccontano i Balcani, qui suggerisco il mio Viaggio letterario.