INCIPIT
Amila chiuse gli occhi, ferita dalla luce. Capì di essere arrivata, ma ancora non sapeva come si chiamava il luogo e dove si trovava esattamente. Per un po’ si sentì oscillare. Doveva aver appena superato uno di quei tornanti lunghi e stretti che già l’avevano sorpresa durante il tragitto, costringendola a frenare all’ultimo momento, vicinissima al guardrail. Era stato su una strada in discesa, immersa a tratti nel buio, bordata da boscaglia e campagne. Poi le luci si infittirono, punteggiarono il riflesso della sirena sul vetro, e Amila seppe di aver raggiunto un centro abitato.
«Siamo a Isola» annunciò una voce maschile. L’uomo era dietro di lei, alla testa della barella. Le sfiorò la spalla immobilizzata, dove si concentrava il dolore. «Non si preoccupi» aggiunse. «A posto, va bene?».
L’ambulanza entrò a sirene spente nel piazzale dell’ospedale. Amila spiegò che doveva assolutamente tornare
a casa. Che l’aspettavano. Che non aveva nemmeno un minuto da perdere.
Un ragazzo preparò una siringa. «Diamo punctura per dolore. Calma, eh?» disse in uno strano italiano senza aggiungere altro.
Una donna le scoprì il braccio in modo energico e, in un italiano questa volta perfetto, le intimò di stare ferma. Amila provò a insistere, con un po’ più di gentilezza. Suo padre diceva sempre: la gentilezza prima di ogni cosa. Chiese «per piacere» e fece un tentativo anche nell’altra sua lingua, che tutti lì dentro dovevano capire.
«Molim vas». Ma nessuno prese in considerazione la sua richiesta. Le dissero solo che era arrivata. Si trovava a pochi
chilometri dal confine italiano che non era riuscita a raggiungere.
Al pronto soccorso, un dottore dagli occhi piccoli e scuri sistemò la lampada sopra di lei. La luce l’accecò. Si infilò i guanti di lattice e l’avvertì che le avrebbe fatto un po’ male. Parlava la sua stessa lingua.
«Sono di Osijek. Io e la mia famiglia siamo immigrati in Slovenia molti anni fa» le spiegò sorridente, come per scusarsi o giustificare il fatto che avessero una lingua in comune, anche se la sua aveva un accento un po’ diverso e mostrava delle imperfezioni.
Anche Amila ne aveva molte in quella che chiamava la lingua di prima o di famiglia. La parlava in modo fluente, ma le sembrava arcaica quando la scriveva. Questo succedeva perché lo studio della lingua si era interrotto alle elementari, e poi, fino all’università, era stato come cercare di recuperare qualcosa di mai imparato. Come se si fosse messa a correre dietro a se stessa. Non poteva che inciampare. Quando tornava nel suo vecchio Paese, la scambiavano ogni tanto per una turista, macedone, russa o bulgara, anche se di turiste così là non se ne vedevano. Solo quando si sentiva sotto pressione, le parole di una volta sbocciavano in una vistosa corolla. Impossibile dire da quale memoria di riserva provenissero o dove si trovasse quello strato sepolto.
Nel frattempo, un’infermiera si avvicinò al lettino senza dire niente. Lei doveva avere la sua lingua tutta a posto.
Amila sentì qualcosa di metallico passarle sulla pancia e sul petto. La felpa venne tagliata a metà.
Federica Marzi