Per chi non ha mai vissuto nella steppa è difficile capire come sia possibile abitare in spazi circondati dal deserto. Eppure chi vive qui da tempi immemori sa quanto varia e ricca possa essere la natura della steppa, e quanto mutevole e cangiante il suo cielo; quanto instabile e fluida l’aria tutt’intorno, e ricca e multiforme la sua vegetazione. Innumerevoli sono gli animali e le specie che la popolano.
La fiaba nucleare dell’uomo bambino, pag. 42
La fiaba nucleare dell’uomo bambino, di Hamid Ismailov, Utopia editore 2021, traduzione dal russo di Nadia Cigognini, pagg. 128
Il titolo evocativo di questo sorprendente e affascinante romanzo mi ha conquistato immediatamente quando, sbirciando su uno scaffale un tantino polveroso di una preziosa libreria di Milano, me lo sono ritrovato davanti. Letto quanto riportato nel risvolto, me lo sono accaparrato e per due lunghe serate sono rimasta in balia della sua seduzione di favola amara ma bellissima.

Ismailov conquista il lettore con la delicatezza di un affabulatore d’altri tempi, racconta una fiaba come pochi sanno fare, mischiando sapientemente il lieve tono poetico, anche quando allude a fatti tragici, alla ineluttabilità di destini umani sacrificati in nome di falsi ideali. Dietro allo stile fiabesco, in cui fanno capolino poesie e antiche leggende, si svela una storia reale, un incubo verrebbe da dire, almeno per gli abitanti della steppa kazaka attorno alla “Zona”, e cioè il perimetro militare in cui l’Unione Sovietica ha portato avanti i suoi esperimenti nucleari, in una continua corsa agli armamenti micidiali con cui contrapporsi al nemico di sempre.
Ma la gioia che scaturiva dalla steppa, dalla musica e dall’infanzia era sempre coesistita in Eržan con il presagio di un’ineluttabile, spaventosa, assurda presenza che si manifestava prima come un ronzio, seguito da un tremito e poi dal vorticare di un tornado che proveniva dalla Zona e spazzava via tutto.
La fiaba nucleare dell’uomo bambino, pag. 43
Il narratore è un viaggiatore sul treno che attraversa le vastità della steppa kazaka; dopo alcuni giorni di monotono sferragliare, sale sul treno un ragazzino, dell’età di circa undici anni, che si rivela un prodigioso suonatore di violino. Incantato dalla maestria del bambino come il resto dei viaggiatori che lo ascoltano rapiti, il viaggiatore-narratore si appresta a conoscerlo, per scoprire stupefatto che non si tratta affatto di un bambino, ma di un adulto dalle sembianze fanciullesche.

Cullati dal movimento del treno, il viaggiatore condivide lo scompartimento col ragazzo che inizia a raccontargli la sua storia. Eržan è cresciuto in un minuscolo villaggio, composto da due case e una stazioncina ferroviaria che serve solo per gli scambi; vi abitano due famiglie che condividono tutto e si sostengono a vicenda. Le due nonne sono custodi di racconti leggendari che narrano le gesta degli eroi della steppa, e poi fiabe e riti magici per guarire chi si ammala; il nonno invece si incarica di educare Eržan alla vita di pastorizia ma trasmette al bambino anche l’amore per la musica e i canti. Grazie alle note che il nonno suona con la sua dombra, il piccolo Eržan diviene un virtuoso. L’unico altro compagno di giochi è la piccola Ajsulu, con la quale condivide tutto e che ben presto lo farà innamorare.
Scandita dai ritmi della natura, dal lavoro del nonno e dal vicino Šaken (il padre di Ajsulu), Eržan vive una vita serena, rischiarata dall’amore per la musica, premiata dalle sue sorprendenti doti di musicista che allietano le due famiglie nelle serate. Grazie ad un amico dello zio, un ungherese che ha studiato al conservatorio, Eržan impara a suonare anche il violino, eccellendo in breve nell’esecuzione di brani complessi, arrivando a suonare davanti a tutta la scuola, dove a dorso d’asino si reca nei mesi in cui il clima lo permette.
Fin qui tutto sembra appartenere allo schema del quadretto bucolico ma… il piccolo e gli altri abitanti vivono a ridosso della Zona, un territorio devastato dagli esperimenti nucleari dell’Unione Sovietica che, in piena Guerra Fredda, compete con gli Stati Uniti per la supremazia degli armamenti. Gli esperimenti provocano continue deflagrazioni – l’autore fornisce gli agghiaccianti dati – che scuotono la terra, cancellando ogni forma di vita che si trovi nelle vicinanze, oscurando il cielo con soffocanti nuvoloni radioattivi. Gli ignari abitanti non sono consapevoli del pericolo che incombe su di loro e delle terribili conseguenze che possono insorgere dall’esposizione alla radioattività. Anzi, Šaken che, ignaro, vi lavora come addetto, è quasi orgoglioso di ciò che nella Zona si sperimenta e continua a ripetere come un mantra: «Non solo riusciremo a raggiungere l’America, ma la sorpasseremo!», lo slogan della propaganda sovietica.
Grevi nubi color piombo galoppavano nel cielo senza pioggia e senza neve. Nubi vuote, che non rimbombavano di tuoni, né scintillavano di lampi. Era strano vedere quelle nubi solcare rapide il cielo, mentre l’aria ristagnava sulla terra al punto che neppure la velocità del rimorchio riusciva a smuoverla.
La fiaba nucleare dell’uomo bambino, pag 26
Il destino tende un agguato al piccolo Eržan durante una gita scolastica agli impianti della Zona: Eržan nella sua ingenuità si tuffa nel Lago Morto, una depressione nata a seguito di una esplosione nucleare. Era vietato avvicinarsi al lago ma l’acqua color smeraldo in cui tutto il paesaggio si rifletteva lo attirava a tuffarsi. Quanto le scorie nucleari saranno in grado di sconvolgere la sua vita lo scoprirà dopo qualche anno, quando tutti gli altri bambini e bambine cominceranno a crescere e lui no.
Eržan si arrovella sulle cause di questo nefasto blocco nella crescita, isolandosi sempre più, mentre i suoi parenti tentano di tutto per curarlo, rivolgendosi alla medicina e anche ai rimedi stregoneschi; sempre più depresso, il ragazzo vede il suo mondo, i suoi sogni, e l’amore per Ajsulu crollargli addosso, e niente ha più importanza per lui, smette persino di suonare la musica che fino a quel momento era stata la sua compagna di vita.
Una fiaba triste, come dicevo all’inizio, ma mai narrata con pietismo; l’autore sceglie la forma della fiaba per raccontare con delicatezza quali siano gli effetti delle decisioni prese senza curarsi delle conseguenze per chi le subisce, in nome di un ideale superiore. E noi lettori, insieme al viaggiatore del treno, non possiamo fare altro che lasciarci cullare dalle parole dell’uomo bambino e trattenere nel cuore la sua amara storia, come un monito per le generazioni future.

Hamid Ismailov è nato nel 1954. Cresciuto in Uzbekistan, ha abbandonato il paese nei primi anni novanta a causa delle persecuzioni del regime, riparando nel Regno Unito. Scrive prevalentemente in russo e in uzbeko. Per venticinque anni ha lavorato come giornalista della BBC.
Traduttore e mediatore culturale, ha curato la resa in uzbeko di molti classici della letteratura occidentale e, nel contempo, la traduzione in inglese e in altre lingue europee di alcuni classici della letteratura uzbeka. Si è inoltre dedicato alla poesia sonora, sperimentando contaminazioni tra la parola, la musica e l’arte figurativa.
Le sue opere, bandite in Uzbekistan, sono state tradotte in molte lingue, riscuotendo il plauso della critica. In Italia sono in corso di traduzione, dal russo e dall’uzbeko, nel catalogo di Utopia.