Lo guardai, ma senza vederlo. Vedevo qualcos’altro. Mi era venuta in mente un’immagine: vedevo me stesso e Laurence come le fibre di una fune. Eravamo legati da una tensione che ci univa: eravamo diversi, ma era nella nostra natura essere anche così uniti e intrecciati l’uno all’altro. E per quanto riguarda i motivi della tensione, una fune non sa per quale motivo la tirino.
Il buon dottore, pag.195
Il buon dottore, di Damon Galgut, E/O edizioni 2022, traduzione dall’inglese di Valeria Raimondi, pp. 250
Dello scrittore sudafricano avevo recentemente letto La promessa, romanzo vincitore del Man Booker Prize nel 2021; e mi era piaciuto molto, per i motivi che ho espresso nella mia recensione. Dunque, mi sono avventurata nell’opera appena edita da E/O ma risalente al 2003, e anche questa volta non sono rimasta delusa. Mi piace molto lo stile di Galgut, che riesce ad andare a fondo nell’analisi di comportamenti e sentimenti, anche quando non sono proprio edificanti, che sa tessere un mosaico pieno di sfumature, che costruisce personaggi reali, a volte mediocri, come nella vita di tutti i giorni, illuminati da sporadici momenti di coraggio o di ribellione alla pavidità; mi piace molto la tensione che domina sul narrato, come una corrente elettrica che tiene il lettore in allerta, temendo una scarica potente.
Damon Galgut ambienta Il buon dottore in una zona desolata del Sudafrica, una delle ex patrie, o bantustan, i cosiddetti homeland, istituiti dal precedente regime dell’apartheid come tristi simulacri dei suoi fiorenti territori bianchi. Si trattava di territori riservati ai neri, delle specie di “riserve” autogestite, di fatto delle zone di segregazione spacciate per un processo che portasse gli homeland all’indipendenza piena, presentandolo come una via sudafricana alla decolonizzazione. Nel 1994, con la caduta del regime dell’apartheid, i bantustan cessarono di esistere e vennero gradualmente reincorporati nella Repubblica del Sudafrica.
In questa area depressa – una specie di non-luogo – situata lungo quello che era stato il confine dell’homeland, si trova l’ospedale fantasma in cui lavorano un manipolo di medici e un unico infermiere. Frank Eloff, il medico protagonista e voce narrante del romanzo, è uno di loro. Insieme a lui ci sono la dottoressa Ngema, la direttrice, una veterana della lotta per la libertà affossata lì a causa di una disputa politica che l’ha trasformata in una cauta burocrate. Ci sono i Santander, una coppia di medici mandati da Cuba nei suoi giorni gloriosi di sensibilizzazione rivoluzionaria; e Tehogo, un infermiere nero che l’apartheid ha trascinato in una serie di dolorosi avvenimenti familiari.
Dopo mezz’ora raggiungemmo la scarpata (..) Era il confine di quella che una volta era stato l’homeland, e l’inizio di un’economia florida (..) Ci eravamo lasciati alle spalle una distesa ondulata, rugginosa, color bronzo, prima delle terre verdi.
Il buon dottore, pag. 26
La vita dell’ospedale si riduce ad una routine deprimente: i pazienti vi si recano raramente, preferendo l’ospedale più organizzato e attrezzato che si trova nella cittadina vicina, le risorse non ci sono, gli edifici fatiscenti sono stati in gran parte saccheggiati e derubati, le attrezzature e i medicinali mancano. Frank e i colleghi si danno il cambio a coprire turni in cui poco accade. Finché arriva Laurence Waters (nome forse non casuale, waters, visto che laverà via le difese che i suoi colleghi hanno così accuratamente rafforzato intorno alle loro vite), fresco di laurea, al suo primo incarico (in base a una nuova legge sudafricana si richiede a tutti i medici appena qualificati di prestare servizio in remoti incarichi rurali), che ha scelto di sua volontà di essere assegnato al luogo più sperduto e disagiato: è un giovane idealista, pieno di iniziativa e deciso a fare la differenza. Gli alloggi utilizzabili sono pochi e Laurence deve condividere la stanza di Frank, che accoglie l’idea con riluttanza.
L’arrivo del giovane medico sconvolge la vita e le abitudini di Frank; la sua presenza si fa subito ingombrante all’interno della stanza, dove sparpaglia i suoi oggetti personali creando disordine, dove fuma senza preoccuparsi del fastidio di Frank. Ma è soprattutto il suo approccio all’incarico a irritare Frank, che sembra quasi essersi rintanato in quel buco di posto dove nulla accade, come a voler fuggire dalla vita, dal suo pericoloso turbinio. Il fervore con cui Laurence intende portare avanti l’incarico è una specie di dito puntato contro l’immobilismo dei colleghi, assuefatti allo status quo.
Laurence vive la professione medica come una missione e si sente in dovere di dare il meglio; racconta di ricordare il momento preciso in cui ha deciso di diventare un dottore ma, quando chiede a Frank quando lui lo ha deciso, egli non è in grado di ricordarlo. Forse perché non c’è stato un momento. Frank forse è diventato medico perché il padre lo è a sua volta.
Da giovane medico di leva assegnato a una delle campagne di confine del regime, Frank fu chiamato in servizio un giorno in cui il suo superiore era via. Gli fu chiesto di monitorare i segni vitali di un prigioniero sotto interrogatorio da Moller, il comandante dell’unità. Mentre Frank si preoccupava di riuscire a curare il prigioniero, divenne chiaro che gli veniva solo richiesto se avrebbe potuto resistere ancora sotto torchio, finché non avesse fornito informazioni utili. L’impulso di protesta del medico alle prime armi divampò ma fu subito evidente che avrebbe potuto costargli la vita; la paura delle conseguenze lo costrinse ad un colpevole silenzio che si sarebbe tenuto dentro per sempre.
Ora è un uomo di mezza età, con alle spalle un rapporto difficile col padre ed altri fallimenti relazionali, in particolare il suo matrimonio. L’unico antidoto con cui Frank riesce a tenere a bada i suoi demoni è un rassegnato cinismo che ammorba la sua scialba vita. Rintanato in quel luogo immobile, sembra che Frank si stia infliggendo una auto-punizione: un bisogno di privarsi di qualsiasi barlume di felicità. Anche con Maria, una negoziante nera che gestisce una baracca di souvenir, Frank non riesce a vivere una relazione vagamente sentimentale; continua a recarsi da lei in modo furtivo, quasi solo appagando i suoi istinti sessuali e pagando la donna.
Laurence piomba su questa realtà impaludata come una specie di tornado, una forza che sembra volere ribaltare tutto. Incapace di accettare l’immobilismo, la sciatteria del luogo, il fatto che i pazienti non lo vedano come una risorsa, vuole rimescolare tutto. Inizia a fare pulizia tagliando l’erba e sistemando il tetto, inizia soprattutto a fare progetti medici: se i pazienti non vanno all’ospedale, allora saranno i medici ad andare dai pazienti, a portare degli ambulatori itineranti nei villaggi più sperduti. La sua foga idealista lo porta ad una concezione della professione medica carica di significati e di simboli; l’esatto contrario della concezione rassegnata e disincantata di Frank. Anche la dottoressa Ngema tiene le distanze dall’atteggiamento di Laurence che forse percepisce come nuova versione della vecchia volontà bianca di dominare.
«Era solo un gesto dimostrativo, Frank, lo capisci? Un simbolo.» (..) Aveva fatto la stessa cosa venendo nel nostro ospedale. Non era sufficiente per lui andare dove la vita o il fato lo portavano. No, doveva strafare, con un grande gesto dimostrativo che non significava nulla per nessuno tranne che per lui. Irritato gli dissi: «I simboli non hanno niente a che fare con la medicina».
Il buon dottore, pag.94
I sentimenti di Frank, in realtà, sono contrastanti: se da un lato c’è una aperta repulsione alla ventata di novità portata dal giovane collega, dall’altro vede in lui ciò che egli stesso non è più, o forse non è mai stato ma avrebbe forse voluto essere. Nonostante non creda fino in fondo ai progetti di Laurence, una parte di sé si lascia contagiare dall’entusiasmo e dall’attivismo del giovane. In questi due personaggi Galgut mostra le due facce della stessa medaglia, l’identità sudafricana in fieri, nel momento del cambiamento.
Intorno a loro però la realtà non rimane immobile, nell’aria aleggiano dei cambiamenti che si materializzano nella presenza di soldati, di una nuova aria di fermento che soffia sulla cittadina e che ben si percepisce da Mama Mthembu, l’unico locale del luogo in cui tutti, compresi Frank e Laurence, si recano per ammazzare il tempo. Sembra che il Generale, il vecchio despota dell’homeland, sia tornato; sembra che i soldati siano lì per prevenire delle minacce… insomma aleggia una vibrante inquietudine, che si traduce in posti di blocco, in qualche rissa da bar e, purtroppo, in due rapine. E dal passato riemerge la faccia del brutale colonnello Moller, proprio a capo dei soldati arrivati in città. Un fantasma che Frank credeva morto e sepolto nella sua memoria e che invece torna alla ribalta con un ruolo che imprime una svolta drammatica alla catena di eventi che si sviluppano. Il personale dell’ospedale sarà pesantemente e irrimediabilmente coinvolto in fatti tragici…. ma questo lo scoprirete leggendo il romanzo, ovviamente.
Il romanzo – un lungo memoir retrospettivo in prima persona – è una meditazione sull’inaffidabilità dei nuovi inizi. Il nuovo Sudafrica viene qui incarnato dalla dottoressa nera Ngema, il cui mantra costante è “innovazione e cambiamento”. Frank non crede in un vero rinnovamento, in un futuro migliore per il Paese, sembra soggiogato dalla sua precedente passività di fronte al razzismo e alle torture perpetrate dall’esercito, è sfiduciato e pessimista, è sempre in tensione vibrante, percepisce una minaccia latente che lo tende come una corda; Laurence é infervorato da un fantastico sogno di utopia, a volte sembra un po’ ottuso e egoista, ma crede che il Sudafrica sia all’alba di una rinascita, e vuole essere un attore del cambiamento. Ma, di fatto, né Laurence né Frank colgono appieno la cultura e la povertà del luogo in cui vivono e dovrebbero servire; rimangono stranieri nel loro stesso paese, rispetto ai neri sudafricani. Ne Il buon dottore, dunque, credo che Galgut punti il dito contro le ipocrisie, gli slogan e le devozioni politiche che alimentano il sogno sudafricano, forse ancora da realizzare appieno.

Recensione interessantissima! Io ero rimasta un pochino delusa da “la promessa”, perché mi sembrava una trama eccezionale svolta però mezzo e mezzo. Anche in questo caso la trama mi sembra bomba, spero di non rimanere un po’ interdetta anche questa volta.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Lo stile di Galgut è sempre quello…. Di lui mi colpisce la tensione che crea nella narrazione. E anche il fatto che riesca a farti capire una realtà, gli aspetti politici e sociali.
"Mi piace""Mi piace"