INCIPIT
Il commissario di bordo prese in mano l’ultimo biglietto di sbarco e osservò i passeggeri che attraversavano il molo grigio e bagnato e giravano intorno agli autocarri abbandonati, in un deserto di rotaie e di scambi. Si allontanavano con i baveri alzati e le spalle ingobbite. Sui tavolini, nei lunghi vagoni, le lampade erano accese e splendevano sotto la pioggia come una collana di perline azzurre. Una gru gigantesca fece un giro su se stessa e si abbassò; il cigolio dell’argano coprì per un momento gli scrosci incessanti dell’acqua – acqua che scendeva dal cielo nuvoloso, acqua che sciabordava contro il molo e le fiancate del traghetto della Manica. Erano le quattro e mezzo del pomeriggio. «Una giornata di primavera, Dio mio» disse a voce alta il commissario di bordo, cercando di dimenticare le impressioni di quelle ultime ore: il ponte bagnato, l’odore di vapore, di nafta e della Bass rancida del bar, e lo strusciare della cameriera in seta nera che portava qua e là catinelle di latta. Alzò gli occhi sulle travi d’acciaio della gru, sulla piattaforma e sulla piccola sagoma in tuta azzurra che manovrava una gran ruota, e avvertì una sensazione d’invidia alla quale non era abituato. Nove metri di nebbia e di pioggia separavano il manovratore lassù dal commissario di bordo, dai passeggeri, dal lungo rapido illuminato. Non posso sottrarmi alle loro maledette facce, pensò il commissario di bordo, ricordando il giovane ebreo con la pelliccia pesante, quello si era lamentato perché gli avevano dato una cabina a due posti; per una traversata di due trascurabili ore, tutto lì.
Graham Greene