INCIPIT
Parte prima
1992-1993
1.
Il bambino camminava appiccicato alla madre, tanto che lei si fermò e disse: “Perché mi stai addosso, non vedi che inciampiamo?”
Era più forte di lui. Aveva dieci anni, e da cinque viveva nel tormento della sua mancanza, passava la settimana alla finestra, in ginocchio su una sedia ad aspettare. Poi la madre arrivava e il bambino era peggio dei cani che non sanno stare al guinzaglio, sbuffava lei. E lui pensava che proprio per l’euforia di trovarsi finalmente accanto al padrone gli tagliavano la strada; non lo diceva.
“Scusa”. Bevve un sorso di Coca-Cola: gliela aveva portata la madre, gli portava sempre qualcosa, chissà dove l’aveva scovata. Lei guardava altrove con gli occhi un po’ strizzati, anche se non c’era il sole, ma un cielo di lamiera nel pomeriggio inoltrato. Faceva così ogni volta, quando passava a prenderlo e camminavano senza allontanarsi troppo. Si guardava attorno, si soffermava su un punto che lui non riusciva mai a capire e le comparivano minuscole rughe ai lati del naso. Al bambino parevano i baffi di un gatto, quelle rughe, e dalla pancia gli saliva una voglia matta di accarezzarle, ma si tratteneva. Tanto, sapeva che lei non avrebbe fatto le fusa.
Compresse la lattina di Coca-Cola e la calciò, il trapestio metallico increspò la fronte della madre. Allora il bambino andò a recuperarla per buttarla in un cassonetto, ma lei disse: “Tira!”.
Lui obbedì, le obbediva sempre.
Appena la lattina le colpì per sbaglio un seno, la madre si bloccò, curvò la testa. Il bambino le corse incontro e rimase in attesa, non osava parlare. Dato che neppure lei fiatava, le sfiorò un fianco, piano, quasi la madre potesse rompersi, o precipitare. “Ti ho fatto male?” Lei sollevò la testa con tale impeto che il bambino trasalì. Mentre i capelli le ricadevano scarmigliati sulle spalle, gli afferrò i polsi, li strinse.
“L’ho parata,” disse, “hai visto?” Poi scoppiò a ridere.
Quando lei rideva, era come le cascate. Il bambino le aveva viste solo in tv, le cascate, ma sognava di farsi diluviare addosso il getto prepotente d’acqua fresca, sognava di berla con la bocca aperta e la faccia all’insù. Se sua madre rideva, scrosciava tutta intera la terra.
Giocarono una partita a due lungo la salita di Bjelave: i calci di lei erano scoordinati, goffi, lo riempirono di allegria. A sorvegliarli, finestre chiuse con tavole di legno al posto dei vetri, squarci aperti nei muri dei palazzi, colombi imperterriti sui davanzali e una lunga colata d’asfalto disertata dagli esseri umani. Qualcuno aveva piantato in un vaso spoglio una girandola: non c’era vento, non girava. Chissà se, soffiando col suo fiato di bambino smilzo, lui l’avrebbe fatta dondolare almeno un po’.
“Torniamo indietro,” disse a un tratto la madre, abbottonandosi la giacca di cotone. Di nuovo quelle rughe a stropicciarle il volto. “Perché?” chiese il bambino e dentro la pancia qualcosa si accartocciò. In ginocchio davanti a lui, la madre gli alzò il bavero, ma non faceva freddo, era maggio. “Dov’è tuo fratello, come mai non è venuto?” Il bambino non rispose. Quella mattina si era svegliato, al solito, per la puzza di fumo: il fratello si accendeva una sigaretta con la guancia ancora sul cuscino, la succhiava sino al filtro, la spegneva sfregandola sulla parete cui era appoggiato il suo letto. Aveva disegnato una catena grigio scuro, ne sembrava fiero.
“Devi convincerlo a venire con noi, la prossima volta. Me lo prometti?” Il bambino annuì: le obbediva sempre. Lei lo abbracciò. Odorava di stufa a legna e capelli non lavati, anche se la stufa era spenta da oltre un mese; era lo stesso odore di quando dormivano insieme.
Il bambino si serrò alla madre per respirarlo, e fu allora che il fragore esplose. Le finestre tremarono, i colombi si scagliarono in volo, la girandola girò e cadde dal vaso, ma il bambino non se ne accorse: una raffica d’aria lo strappò all’abbraccio scaraventandolo via.
Rosella Postorino