Non ho memoria di nessun altro luogo dove l’infanzia muoia così in fretta, dove la si sotterri tanto spietatamente. L’infanzia, il più bel fiore della vita, svaniva come un dente di leone appassito. Nessuno sapeva dove fossero sepolti i giorni dell’infanzia. Nei due, tre secoli trascorsi all’orfanatrofio ebbi la percezione di quanto stessimo invecchiando, mille anni o forse più.

Grande madre acqua,  di Živko Čingo, Casa Sirio editore, collana Sciamani, 2018 traduzione di Carolina Crespi e Jessica Puliero

Un libro che non si dimentica facilmente, che rimane sottopelle, lasciando una sensibilità acuita e dolorante, offuscando lo sguardo con una rabbia cieca e instillando sfiducia nella capacità umana di proteggere chi è più debole, palesando che, anche se si sopravvive alle peggiori esperienze, le cicatrici che lasciano non guariranno mai del tutto. Eppure, allo stesso tempo, capace di rafforzare la speranza che lui, quell’essere umano tanto bieco quando vuole, possa essere salvato, se almeno un piccolo seme di umanità alberga in lui. Una storia dura, che però lascia intravedere la luce in fondo al tunnel, quel barlume di speranza di una vita migliore, di potersi salvare e di avere diritto alla libertà e alla felicità.

I protagonisti di questo romanzo sono i bambini: due in particolare, Lem e Keïten, ma anche tutti gli altri, come un’unica folla triste e muta, che cerca di sopravvivere all’interno di un orfanatrofio, allestito in un ex manicomio, circondato da un altissimo muro di cemento e isolato dal mondo esterno. Un muro fisico e mentale, un limite invalicabile che sancisce un al di qua doloroso e un al di là non meno pericoloso ma che comunque porta con sé il profumo della libertà, e il rumore dell’acqua, anch’essa reale e al tempo stesso astratta, mito e natura come una quinta su cui va in scena questo dramma.

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Lago Ohrid, credits Daily Express

La vicenda è ambientata in Macedonia, alla fine della Seconda guerra mondiale. “Un territorio senza fissa dimora”, come dice Marcoandrea Spinelli nella Prefazione; a lungo conteso da altri stati, come la Serbia o la Grecia che ne rivendica persino il nome per la sua “quota” macedone nel nord. Durante la Seconda guerra mondiale, questi territori furono dapprima alleati delle potenze dell’Asse, nazisti e fascisti, poi, a seguito di un colpo di stato, ruppero l’alleanza ma furono invasi dalla Germania, che operò una durissima repressione, andando così ad accrescere i sentimenti di ribellione che dettero vita ad una consistente attività partigiana, che appoggiò Josip Broz Tito, divenuto alla fine del conflitto, il presidente della Jugoslavia. La Macedonia divenne una delle Repubbliche Socialiste. Si separò pacificamente dalla Jugoslavia negli anni Novanta – mentre, come ben sappiamo, i conflitti insanguinarono quasi tutte le ex repubbliche – e divenne una democrazia parlamentare.

La Macedonia è uno stato multietnico, abitato da diverse minoranze – la più numerosa è quella albanese -, dove si parlano diverse lingue, alcune delle quali solo qui, una terra dove per dire che sei di lì, devi essere preciso, perché “senza complemento di specificazione geografico non si è nessuno (..) Nei Balcani non si è solo serbi, croati, albanesi, macedoni, si è serbi di Macedonia, albanesi di Kosovo, croati di Serbia”.  Un intrico di etnie, lingue, culture. Ma anche un Paese verdeggiante, con grandi parchi naturali, laghi e i più ben conservati mosaici e dipinti bizantini.

Dalle macerie della Seconda guerra mondiale, la popolazione uscì orfana di una identità comune, aggregante, e orfana di padri e madri, quelli morti tra le fila dei partigiani che difendevano il territorio, o uccisi nelle campagne e nelle città dalle bombe e dagli invasori, o uccisi dai partigiani perché fiancheggiatori. E nelle campagne ridotte in miseria, c’erano solo vecchi e orfani. Le autorità del neonato governo socialista iniziarono così a raggruppare i bambini dispersi e ad ospitarli negli orfanotrofi dove si intendeva non solo provvedere alle loro necessità materiali, ma li si voleva soprattutto formare ai nuovi ideali socialisti, un indottrinamento severo e autoritario che doveva produrre cittadini modello. Soprattutto se figli di persone sospettate di collusione con nazisti e fascisti.

Lem, la voce narrante, è rimasto orfano e viene allontanato dallo zio, che non ha mezzi per provvedere a lui e alla sua numerosa famiglia. Finisce nell’orfanatrofio, dove conosce Keïten:

Me lo assegnarono come compagno di fila. Che io sia maledetto, compagno di fila. Lo misero sotto la mia responsabilità, me lo caricarono sulle spalle. Ogni alunno esemplare era obbligato a prendere un cattivo compagno di fila sotto la propria responsabilità, Dico, esemplare, ho finito quasi per odiare il mondo intero a causa di questa parola. Un compagno esemplare, un pioniere esemplare, uno skoévets esemplare, un costruttore esemplare. Esemplare? Più che altro un rompiscatole. Era così, lo giuro. Era la primavera del 1946, la prima dopo la guerra. Da allora sono trascorsi mille anni.

E qui conosce la dura realtà dell’educazione forzata, fatta di continue e crudeli punizioni, di umiliazioni, di puro terrore ad opera di quegli stessi responsabili a cui sono affidati. Rinchiusi in questa specie di fortezza da cui è impossibile uscire, malnutriti e infreddoliti, questi bambini sembrano degli internati in un campo di prigionia, e l’istinto di sopravvivenza li spinge a mettersi l’uno contro l’altro, pur di riuscire ad ottenere un tozzo di pane, una coperta o delle scarpe.

Il Piccolo Padre, il compagno Ariton Iakovleski, conosciuto nel mondo esterno con il soprannome di “Vecchio partigiano”, nel ruolo di direttore, e la compagna Olivera Srezoska, nella mansione di educatrice, così come il Campanaro, ospite ereditato dal manicomio, sono responsabili dei maltrattamenti che con fanatismo infliggono ai piccoli ospiti ma ben presto, però, si rivelano essi stessi vittime della scia di sangue che ha bagnato la terra macedone.

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Mavrovo National Park

Come salvarsi in questo universo dolorante? Attraverso la risata folle, il sogno e il mito. Attaccandosi alla speranza di una madre acqua che attende là fuori.

L’immagine della Madre Acqua non si dimentica mai. Con lei il richiamo irresistibile del Monte Senterlev acquistava un senso reale, come se questo sogno meraviglioso e magico fosse possibile, realizzabile. (..) La custodivo profondamente nascosta nel cuore, come qualcosa di molto caro, come il viso di mia madre.

Grande madre acqua e il Monte Senterlev sono due entità esterne e immaginifiche, simboli della purificazione e della rinascita, il cui richiamo spinge i bambini a desiderare di volare, almeno con la fantasia, fuori dal quell’universo claustrofobico che è l’orfanatrofio.

Scritto con uno stile evocativo, lirico, attraverso l’uso di metafore e immagini, allo stesso tempo realistico e a tratti crudo; quasi un romanzo di formazione, che vede il passaggio da un’età dell’innocenza ad una della consapevolezza dei limiti dell’uomo ma anche della sua capacità di superare quei limiti.

Allora anche lui possedeva un paio di lacrime sincere! Anche nel suo cuore si era conservato intatto un posticino per il vento e le altre follie! Che io sia maledetto, istintivamente gli credetti. Non è forse vero che ciascun cuore umano, per quanto gelido e impenetrabile, possiede delle gocce di pioggia primaverile?

Živko Čingo (1935 – 1987) è nato nel villaggio di Velgošti nei pressi del lago di Ohrid, in Macedonia, dove gli hanno dedicato una scuola elementare. Ha scritto diversi racconti e pièce teatrali ed è stato direttore del Macedonian National Theater. Il suo romanzo “Grande madre acqua” (Golemata Voda) è stato adattato al cinema nel 2004 con il titolo “The Great Water” da Ivo Trajkov.

L’incipit lo trovate qui

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