Era questa la sconfitta. Essere così inibita e paralizzata dal dovermi astenere da quello che per me poteva essere un bene. Perché ero vincolata a quella stupida infanzia. Quello era il titolo da dare al mio agire nel mondo: vincolata all’infanzia. Superati i cinquant’anni, ma ancora sofferente della paura che provano i bambini verso l’autorità genitoriale. (..) Per la maggior parte delle altre persone, apparivano sicuramente come due anziani, deboli e innocui, ma per me erano due figure potenti, dalla cui morsa mi ero liberata solo dopo anni di terapia. (pag. 61-62)
Eredità, di Vigdis Hjorth, Fazi editore 2020, traduzione di Margherita Podestà Heir, pagg. 372, copertina disegnata da Francesco Sanesi
Quando è stato pubblicato in Norvegia nel 2016, il romanzo di Vigdis Hjorth Eredità è subito balzato all’attenzione di pubblico e stampa, divenendo sia un bestseller che uno scandalo letterario. La storia è narrata da Bergljot, che è stata abusata sessualmente da suo padre da bambina. Essendo stata a lungo allontanata dai suoi genitori e dalle sue sorelle che si erano schierati compatti, Bergljot è trascinata in una discussione familiare sull’eredità, e in particolare su a chi spetti ereditare le due case per le vacanze di Hvaler. A distanza di anni di elusione del nocciolo della questione familiare, l’occasione dell’eredità riporta alla luce tutto il passato.
Il furore mediatico nella vita reale è derivato dal fatto che Hjorth ha attinto alla propria storia familiare, provocando anche una confutazione – sotto forma di un altro romanzo, a tinte più “rosa” e non a caso divenuto esso stesso un bestseller – da parte di sua sorella Helga Hjorth. Ma Vigdis Hjorth ha anche insistito che Eredità è finzione, e in effetti, nell’edizione uscita in Norvegia, porta il sottotitolo “Un romanzo” sulla copertina.
Ciò che appare reale al lettore è il lungo dipanarsi degli stati d’animo che la protagonista vive e racconta di avere vissuto a partire dalla sua travagliata infanzia, ma soprattutto nell’età della consapevolezza, quando i ricordi, a lungo rimossi, hanno iniziato a tornare a galla, spingendola via via sempre più vicina all’orlo di un baratro affettivo che, col tempo, ha travolto tutti gli affetti familiari, come una tessera di domino che cadendo fa crollare tutta la fila.
Il racconto di Bergljot si sviluppa alternando il presente al passato, svelando lentamente, creando una tensione crescente per capire cosa sia realmente accaduto all’interno di quella famiglia tale da causare un così netto allontanamento, con uno stile magistrale, attraverso il confronto tra il sé odierno – una donna che ha superato i cinquanta, madre e nonna – e il sé passato, quello della maturità che le ha dato la spinta ad affrontare di petto il nodo cruciale della sua esistenza, inesorabilmente condizionata in modo negativo anche a distanza di anni e soprattutto nella ricerca di un equilibrio difficile nel rapporto di coppia che ha cercato di costruire con i suoi partner.
Hjorth descrive i lunghi tormenti interiori di Bergljot e il doloroso spettro di emozioni contrastanti, scrivendo con passo lento, scandagliando ogni risvolto, analizzando gli stati d’animo che hanno condizionato le azioni, rendendo reali i pensieri e il continuo riflettere della donna, costruendo così un rapporto empatico tra il lettore e la protagonista. La narrazione è portata avanti con insistente chiarezza, evitando una patetica caduta nelle emozioni gratuite, evitando dettagli specifici sugli abusi, ma ponendo l’accento sugli effetti sull’equilibrio relazionale.
La resa dei conti familiare sopraggiunge quando entra in gioco l’eredità, alla morte del padre. Se in passato la volontà paterna si era espressa in una divisione equa ed imparziale tra i quattro figli, emerge che le due case di vacanza a Hvaler sono invece destinate alle due figlie minori Astrid e Åsa, rimaste fedeli al culto della famiglia perfetta e armoniosa; escludendo i due figli maggiori Bård e Bergljot, si apre una controversia che trascende immediatamente dall’aspetto materiale del lascito, per andare a scardinare gli equilibri affettivi tra i fratelli e con la madre, dando vita a due schieramenti contrapposti.
Se per Bård è difficile fare i conti con l’ingiustizia di cui ritiene di essere vittima – che in realtà si ricollega a tutta l’indifferenza pregressa nei suoi confronti da parte soprattutto del padre – maggiormente la questione si fa pesante per Bergljot che, avendo tagliato i ponti con la famiglia d’origine già ventitré anni prima, sperava di non doversi più confrontare col dolore legato ai suoi traumi, mentre di nuovo, le pesanti ombre familiari tornano ad offuscare il suo seppur precario equilibrio personale.
Nell’affrontare l’esperienza traumatica vissuta da bambina e tutto ciò che essa ha poi comportato, si fa molto ricorso alla psicoanalisi; Bergljot infatti da grande deve entrare in un programma di sedute con uno psicanalista per superare il trauma. Il ricorso alla psicanalisi si traduce anche nella cifra stilistica che spesso fa uso della ripetizione, riga per riga e scena per scena, in un modo che sembra sincero, di qualcuno che cerca di elaborare il trauma.
La scrittura è fatta di frasi brevi, con continue ripetizioni di parole, di gesti, ritorni a pensieri già espressi, in un continuo processo di rielaborazione, esattamente come avviene nella realtà, di fronte ad una presa di coscienza di ciò che è rimasto a lungo sepolto, e che emerge grazie al continuo scavo che, seppur doloroso, dà la forma del reale a ciò che potrebbe essere immaginario, a ciò che si è cercato, invano, di rimuovere.
Bergljot, durante il processo di analisi, esamina l’abuso alla luce della relazione disfunzionale dei suoi genitori: il desiderio ossessivo di controllo di suo padre ha costretto sua madre a vedere Bergljot come una rivale sessuale con delle modalità aberranti. Ma ciò che più ha fatto soffrire Bergljot e che ha determinato il definitivo allontanamento dalla famiglia, è il fatto di non essere stata creduta dalla madre e dalle sorelle. Solo i fratello è solidale con lei, poiché anche lui – loro sono i due maggiori tra i quattro – ha provato sulla sua pelle la violenza del padre, non in forma di abusi ma di botte e di indifferenza totale.
Dovevo smetterla di credere che mia madre mi avrebbe capito. Dovevo smettere di credere che mia madre mi avrebbe accolta. Non avrei ricevuto nulla dai miei genitori, senza rinunciare alla mia verità (pag. 235)
Se nei confronti del padre l’allontanamento dalla famiglia ha garantito di ridurre le occasioni di incontro, ma non la paura fisica ed emotiva, ciò che mina il rapporto con la madre è la negazione, in nome della rispettabilità della famiglia, di un onore da mantenere intatto agli occhi della società – la famiglia è rispettabile e abbiente – e della sua posizione nello specifico, in quanto se avesse creduto alle parole della figlia, avrebbe dovuto lasciare il marito, magari anche denunciarlo, ma invece lei stessa racconta alla figlia di come ha liquidato la questione.
E dopo aver parlato con mio padre, erano andati a Hvaler, erano in crisi, avevano bevuto e mio padre le aveva detto: E se io ti dicessi che l’ho fatto? E mia madre gli aveva risposto: In tal caso non posso rimanere sposata con te. (..) A Hvaler mio padre era ubriaco e piangendo le aveva detto: E se io ti dicessi che l’ho fatto? Mio padre era ubriaco e aperto ad affrontare una discussione seria e decisiva, mentre mia madre gli aveva risposto che in tal caso non poteva rimanere sposata con lui. (..) Quella era stata la loro decisione, avevano proseguito la loro vita in comune, avevano posto fine alla crisi, si erano sforzati di lasciarsela alle spalle. (..) avevano calcolato che il loro rapporto con me valeva meno di quanto sarebbe costato loro se avessero affrontato quella conversazione sincera per la quale mio padre si era reso disponibile. (pag. 259)
Parte di ciò che rende questo libro così straordinario è la consapevolezza di Bergljot del dolore in questione che la circonda, incluso quello delle persone che hanno causato il suo stesso dolore. La sua sofferenza non fa nulla per negare la loro e non toglie la sua capacità di testimoniarla. Dopo aver costretto sua madre a confrontarsi con il passato, è ossessionata dalla sua espressione: “La faccia terrorizzata di mamma … come un animale con le spalle al muro che sa di essere torturato e ucciso, e un’ondata di dolore ha travolto me, l’agonia della compassione, povera mamma .”
Il suo amico Bo le dice che il problema non è quando simpatizzi con una delle parti in conflitto, ma quando simpatizzi con entrambe. Il ruolo della vittima diventa insignificante, persino di cattivo gusto. La ricerca della vendetta appare futile e patetica.
Ciò verso cui si sta muovendo non è la risoluzione, che sa non essere possibile, ma alla fine essere riconosciuta. Quando sua figlia Tale scrive una lettera alla famiglia che delinea la sofferenza di sua madre e la loro vergognosa ignoranza, qualcosa cambia in Bergljot:
Piansi. Tanto spaventoso vedere quelle parole, tanto bello essere vista. (pag. 246)
Ciò che Hjorth trasmette con forza è come non essere creduto possa essere dannoso per le vittime di un trauma. Eredità ricorda che è più facile nascondere l’oscurità che affrontarla. Alcuni dei capitoli ampliano questo aspetto a livello sociale: Hjorth sostiene in modo convincente che i conflitti e le atrocità spesso derivano da ciò che una nazione reprime o nega.
Tuttavia, è comprensibile il motivo per cui il libro ha causato indignazione, data la gravità di ciò che implica. C’è qualcosa di scomodo nell’insistere con tanta veemenza sulla necessità di affrontare la verità e poi insistere sullo status del tuo lavoro come di un’opera di finzione.
Non ero in grado di perdonare. (..) Perché non si trattava di episodi singoli, e neppure di un racconto finito, ma di una ricerca caparbia, uno scavo necessario pieno di cortocircuiti e tormenti involontari. E la presenza della mia infanzia perduta, l’eterno ritorno di quella perdita, era ciò che mi rendeva nitida e distinta a me stessa, una parte della mia esistenza che permeava persino il sentimento e la sensazione più piccoli che albergavano dentro di me. (pag. 371)
Nel suo significato più profondo, questo è un romanzo sul modo in cui la vita familiare disfunzionale mette la storia di una persona contro quella di un’altra senza possibilità di vittoria per nessuno, tutti ne escono avendo perso molto.
Eredità è una lunga meditazione lirica sul trauma e la memoria, e un racconto furioso di una donna per la sua sopravvivenza e per essere creduta.
Se si è così fortunati da superare tutto quanto, è fondamentale non dimenticarsi delle competenze acquisite quando si era infelici. (pag. 159)
Nata a Oslo nel 1959, Vigdis Hjorth è una delle scrittrici norvegesi più conosciute e stimate. Ha esordito nel 1983 con Pelle-Ragnar i den gule gården, grazie al quale il Ministero della Cultura norvegese le ha attribuito il premio per il miglior romanzo d’esordio. Ha pubblicato più di trenta libri, fra cui una ventina di romanzi, conquistando i premi letterari più svariati. Eredità, vincitore del Norwegian Booksellers’ Prize e del Norwegian Critics Prize for Literature – i due principali riconoscimenti norvegesi –, è il romanzo con cui ha ottenuto la fama internazionale, rientrando nella rosa dei finalisti del National Book Award for Translated Literature nel 2019.
(le prime due foto ritraggono la città di Fredrikstad, in cui è ambientato il romanzo; le altre, la località turistica di Hvaler, in cui si trovano le case dell’eredità e che ha ispirato la copertina)
L’ho preso ieri in biblioteca, sono molto ansiosa di iniziarlo, combattuta fra la voglia di leggerlo e il timore che faccia parecchio male.
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Nonostante il tema, non è un romanzo disturbante, non c’è compiacimento o sensazionalismo. E’ tenuto su un registro alto grazie alla scrittura e al modo di condurre la narrazione. E’ un romanzo profondo, che affronta temi delicati.
Fammi sapere poi, quando lo avrai letto, come ti è sembrato.
Buona lettura!
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Di certo dà l’idea di essere un’opera complessa: sei stata molto brava (come al solito) a indagarla a fondo, a dare conto dei suoi temi, soffermandoti su aspetti come il rimosso e la verità. Sai analizzare con sguardo lucido e sapiente i testi che ci proponi.
Come sempre, leggerti è un piacere.
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Grazie Benny. Contrariamente a quanto faccio di solito, in questo caso ho svelato il segreto di famiglia facendo un po’ spoiler. Il motivo per cui l’ho fatto è che, sebbene venga svelato avanti nella trama, lo si intuisce precisamente fin da subito, perché Hjorth dissemina indizi inequivocabili sulla natura della frattura con la famiglia. Si allude ad un fatto traumatico, che risale all’infanzia, tale da provocare un taglio netto con la famiglia. Credo che chiunque inizi la lettura se lo aspetti fin dai primi capitoli.
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