La vita scorre così veloce. Sono tante le domande importanti che evitiamo di porre se non dentro di noi, sono tante le cose che evitiamo di affrontare, anche se le persone in grado di contribuire a un chiarimento e fornirci informazioni utili sono ancora vive. Potremmo andare da loro e pretendere delle risposte, ma non lo facciamo, perché? Non ci risponderebbero comunque, neppure se le supplicassimo, oppure non ne vale la pena, pensando all’umiliazione, all’imbarazzo. Rinunciamo a ottenere informazioni fondamentali per evitare il disagio, quest’esistenza è breve e limitata, ma è la sola che abbiamo, mentre l’irrisolto, l’incerto ci può tormentare per tutta la vita, soprattutto di notte, o no?

Stento a credere che mia madre non voglia parlare con me per nessun motivo. Che i figli rinneghino i propri genitori è comprensibile, che i genitori rinneghino i propri figli, e in maniera così caparbia, è raro. (Pag. 117-118)

Lontananza, di Vigdis Hjorth, Fazi Editore 2021, collana Le strade, traduzione di Margherita Podestà Heir, pagg. 374

Dopo Eredità, Vigdis Hjorth torna in libreria in Italia grazie a Fazi, che ci ha fatto scoprire la scrittrice norvegese contemporanea più famosa nel suo paese. I suoi romanzi possono piacere o non piacere ma di certo non lasciano indifferenti. Le sue storie mettono a nudo le lacerazioni, i traumi dell’infanzia, i dissidi familiari e le ripercussioni che essi provocano sulle esistenze delle persone. La famiglia, cioè il portale attraverso cui tutti – o quasi – passiamo per affacciarci sul mondo, è sempre l’origine da cui si diramano idiosincrasie, tormenti, dissidi e la letteratura questo tende a portare alla luce perché come ben diceva Yates, di cos’altro si parla nei romanzi, se non della famiglia? Che lo si voglia o no, con i genitori si ha un rapporto che dura per tutta la vita: sia esso di armonia o di conflitto, tuttavia assume i connotati di un asse portante attorno al quale continuiamo a girare. E così è per Johanna, protagonista e voce narrante in prima persona, e il suo non-rapporto con la famiglia.

Lontananza si snoda come un diario interiore, un monologo attraverso il quale la protagonista fa i conti con il suo passato.

Johanna torna nel suo paese, la Norvegia, dopo trent’anni; se ne era andata quando, studentessa di legge e neosposa, aveva abbandonato una vita che non sentiva sua, volando negli Stati Uniti con il professore d’arte che aveva conosciuto ad un corso e di cui si era innamorata. La famiglia aveva deciso per lei un percorso di vita: la laurea in legge e un lavoro rispettabile e remunerativo, un marito adeguato, l’aderenza alle convenzioni sociali di civile comportamento, la devozione ai genitori. Peccato che le aspirazioni di Johanna fossero altre… La sua attitudine ad esprimere sentimenti ed emozioni attraverso la pittura era emersa già da bambina, causando riprovazione soprattutto da parte del padre e imbarazzo dalla madre, che leggeva in quelle raffigurazioni tutti i disagi non solo della figlia, ma bensì i propri.

Avevo capito alla perfezione che mia madre voleva rompere il vaso. Anch’io avrei voluto romperlo e soprattutto se fossi stata la mamma, come in un certo senso ero. La mamma era stata coraggiosa a romperlo, bisognava dargliene atto, finalmente un’azione appropriata, un germe iniziale di protesta, ma non era stata abbastanza coraggiosa e da quel momento in poi non le piacevo più perché avevo visto entrambe le cose, il desiderio e la vigliaccheria. (Pag.182)

La sensibilità di Johanna, infatti, aveva già colto, fin da bambina, l’incongruenza del carattere della madre: una donna dalla bellezza diafana, apparentemente spensierata, relegata però in un ruolo di sottomissione al marito che da lei, a cui il destino aveva riservato un’infanzia infelice e socialmente poco presentabile, pretendeva completa aderenza alle convenzioni di buona educazione e di rispettabilità sociale.

Johanna aveva voltato le spalle a tutto questo prendendo la decisione più ostica, la fuga, che, nell’ottica dei genitori, significava la rottura totale, un viaggio di sola andata verso la chiusura dei rapporti. E a nulla erano valsi i tentativi di Johanna di spiegare alla madre con una lettera i motivi della sua scelta; da quel momento il suo nome, la sua storia sono stati cancellati dalla vita della famiglia. E nei suoi confronti è stato eretto un muro di veti, anche da parte della sorella.

Johanna è riuscita a costruire la sua famiglia con Mark e il figlio John, ma di ciò i suoi genitori non hanno mai voluto sapere nulla. Ha espresso la sua arte con dipinti che indagano il rapporto madre-figlia creando un’ulteriore e definitivo black-out nei rapporti con la famiglia quando i quadri furono esposti in una mostra personale in Norvegia; i suoi genitori attribuirono alle opere un’accusa diretta a loro, provando sentimenti di vergogna per il fatto che la gente – i loro conoscenti – li avessero visti e vi avessero letto tutte le implicazioni del caso.

Ora, a distanza di tre decenni, Johanna è un’artista affermata e torna in Norvegia dove il museo cittadino sta per allestire una retrospettiva delle sue opere. Sessantenne e nonna, vedova di Mark, con il figlio musicista John che vive in Danimarca, Johanna ritorna in patria e si rifugia in un cottage nel bosco. Un’immersione totale nella natura è l’ambiente di cui ha bisogno per analizzare i suoi sentimenti verso la madre e dove matura la necessità di rivederla per affrontare definitivamente i motivi della sua fuga.

Le pagine che Hjorth dedica alle descrizioni del bosco innevato e degli animali che lo popolano sono di una bellezza incredibile; uno scenario naturale reso con maestria che conferisce una dimensione panica al suo lavoro di introspezione.

Le sere si fanno sempre più corte. Dalla mia tana vedo le ultime foglie cadere, le betulle nane arrossire, il muschio ingrigire e l’erba coricarsi quando scende il buio, gli insetti muoiono o vanno in letargo, tutto è in attesa dell’inverno, delle “notti di ferro”, quando ogni cosa si ricopre di gelo. Un lampone artico solitario trema all’ombra dei grandi pini dove attendono i ricordi, la mano trema in novembre. I rami respirano lungo le tenebre e le paludi succhiano la notte immensa, è un insieme di fruscii e colpi e mi aggrappo disperatamente a questa vita logora e consunta come se fosse un tesoro. (Pag. 204)

Vigdis Hjorth, come già aveva fatto in Eredità, indaga a fondo nei sentimenti attraverso lo scavo che Johanna porta avanti: con un percorso a ritroso, accidentato e doloroso, la porta all’origine del trauma che l’ha allontanata dalla sua famiglia. Il suo sentirsi incompresa se non denigrata, il suo bisogno infantile di amore e di accettazione hanno segnato i rapporti con i genitori, in special modo con la madre verso la quale Johanna provava sentimenti contrastanti. Voleva compiacerla, assomigliarle ma si sentiva rifiutata e continuamente criticata. La sua decisione di fuggire – uno strappo definitivo, reso ancora più insuperabile dalla lontananza – ha segnato in profondità le coscienze di tutti i membri della famiglia, a tal punto che persino a distanza di anni, nonostante i tentativi di Johanna di riallacciare i rapporti, sembra che da parte della madre e della sorella non si voglia concedere alcuna speranza.

In forma di monologo che si sviluppa su una costruzione in capitoli a volte lunghi, altre brevissimi – delle istantanee come scosse elettriche, come affondi nella carne – il romanzo è scritto con l’inconfondibile stile della Hjorth: precisione millimetrica nella scelta delle parole e nella dissezione dei sentimenti, scavo interiore che alterna passi avanti e indietro nel maturare le consapevolezze. Un romanzo che fa riflettere sul valore della libertà degli individui di seguire le proprie inclinazioni, di operare le proprie scelte senza condizionamenti, della comprensione che i genitori possono e devono maturare nei confronti dei figli e di quanto sia necessario il loro supporto affinché possano costruirsi la loro vita. Certo, questo può avvenire anche in un contesto di opposizione, come accade alla protagonista; ma a che prezzo?

Desidero soltanto di poter parlare insieme apertamente, oltretutto è diversa la relazione tra madre e figlio rispetto a quella tra madre e figlia, perché la madre è uno specchio in cui la figlia vede se stessa come sarà nei tempi a venire, mentre la figlia è uno specchio in cui la madre vede il proprio io perduto, è per questo che mia madre non mi vuole vedere, per non vedere ciò che ha perso? Un figlio può essere costretto ad affrontare i propri genitori per trovare la propria volontà, la propria via, e se i genitori accettano questo in seguito potranno instaurare un rapporto più alla pari, perché nei momenti più cruenti di questo scontro tutti si sono mostrati nudi e vulnerabili e perché si è cercato di esprimere a parole tutto ciò che esisteva di complicato e ambivalente, cosa che non è mai avvenuta tra me e mia madre. Ed è necessario affinché questo circolo vizioso di sofferenza si possa spezzare, è questo che sto facendo? (Pag.96-97)

Un romanzo potente, lucido che, senza timore e oltre i luoghi comuni, indaga nel sentimento cardine della nostra esistenza, quello che ci lega ai nostri genitori, mettendo a nudo anche le pieghe più nascoste, ambigue, quelle che possono rendere inconciliabili le posizioni, quelle che generano conflitti e allontanano. A volte, per sempre.

Qui potete leggere l’incipit.