INCIPIT
NOI
Martedì 4 dicembre 2001
Aspettavamo che tutto confluisse.
Era ancora buio. E se anche il sole fosse stato alto, non avremmo avuto bisogno di guardarci intorno. Era la solita terra, pigramente cosparsa di erba secca, il solito abbeveratoio di cemento orlato dalla ruggine accanto alla recinzione, i soliti cipressi bianchi che punteggiavano le proprietà della nostra famiglia. Un paesaggio che ci era familiare quanto l’interno delle nostre palpebre. E sapevamo di aver ritrovato il luogo esatto per via dell’odore. Ci si infilava nel naso e nella gola come un lembo di tessuto arrotolato e spinto così in profondità da far male. Era l’odore degli agnelli morti e lasciati a marcire al sole.
Al volante del pick-up, l’uomo sterzò, sentì tirare i punti sul braccio. Da laggiù, l’edificio principale era solo una macchia in lontananza. Il sole si stava alzando, adesso, e lui stava controllando la recinzione. Se si fosse avvicinato anche solo di un metro in più – un metro non era nulla in una proprietà del genere – non lo avrebbe mai trovato. Ma il pick-up sobbalzò leggermente quando passò sopra un punto più cedevole del terreno. L’uomo scese e restò in piedi nello spazio descritto dalla portiera aperta e l’odore lo investì come aveva investito noi. Andò a prendere una vanga dal cassone del pick-up. Noi bambini sentivamo e vedevamo tutto. Il respiro affaticato dell’uomo era interrotto solo dall’occasionale rumore della vanga contro un sasso. Osservammo la sua faccia mentre lui strizzava gli occhi dal dolore. Notammo l’angolazione delle sue spalle quando colpì qualcosa che non sembrava voler cedere, qualcosa che non era terra né una radice. Lo vedemmo accovacciarsi per scavare con una mano, tastando con le dita un oggetto di plastica nera e lucente. Da quattro giorni nessuno, noi inclusi, aveva più visto Esther Bianchi.
Adesso il sole era sorto del tutto. Il sudore gli gocciolava lungo la schiena e negli occhi. Sbatté le palpebre. Arretrò di un passo, usò la vanga per pareggiare i bordi della fossa. C’erano solo pochi centimetri di terra sopra il fagotto avvolto nella plastica, che sembrava più lungo che largo. E scivoloso, quando lo afferrò.
In seguito, la polizia lo avrebbe criticato per aver rimosso il corpo. Al primo sospetto, avrebbe dovuto chiamare qualcuno. «E se era solo un vitello, vi chiamavo e venivate per niente?» avrebbe detto l’uomo, le sopracciglia inarcate.
Perché mai un vitello avrebbe dovuto essere avvolto in un telo di plastica nera? avrebbe pensato la detective, senza dirlo.
L’uomo tirò il sacco di plastica con il braccio sano. La terra lo lasciò andare e lui cadde all’indietro, una gamba che si piegava innaturalmente sotto di lui. L’uomo si rimise in piedi in fretta, i punti che tiravano, il dolore che sbocciava come un fiore. Si fermò e guardò verso la casa in lontananza prima di riavvicinarsi. Aprì il telo, ignorando la fitta al braccio, la puzza gli provocò un conato. Quando vide il contenuto, si portò una mano alla bocca.
Che cosa significava? Per ora possiamo solo dire che eravamo lì, che vedemmo il sangue inzuppare la manica dell’uomo mentre si allontanava dal cadavere di Esther Bianchi e si guardava intorno, come se la risposta potesse trovarsi da qualche parte nella discesa dei campi.
Hayley Scrivenor