Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

I patrioti

INCIPIT

Prologo

Saratov, 1956

Una domenica d’agosto, un bambino e un uomo con un braccio solo apparvero sul marciapiede della stazione ferroviaria di Saratov. L’arrivo del treno che aspettavano era previsto per le sei. A quell’ora del tardo pomeriggio l’aria iniziava a raffreddarsi. La luce del sole, che stava cangiando, si offuscava e trasformava in oro la polvere sollevata dalle scarpe dei passeggeri frettolosi. Mentre si faceva strada in mezzo alla folla che errava senza una meta, l’uomo pescò dalla giacca una sigaretta rollata a mano e la tenne stretta fra i denti. Con l’unica mano estrasse un fiammifero dalla scatola, lo accese sfregandolo contro il pollice e si curvò sulla fiamma. Tirando dalla sigaretta, si guardò indietro per controllare che il bambino non fosse stato inghiottito dalla calca. L’estate aveva trovato le stazioni ferroviarie affollate come non lo erano più state dai tempi della guerra. Per arginare il tanfo dei bagni pubblici, i netturbini versavano polvere candeggiante nelle latrine. L’uomo vietò al bambino di andare da solo in una di quelle strutture, sapendo che pullulavano di urky pronti a sgozzarti per rubare i soldi che tenevi nascosti nella biancheria. Da due anni ondate di criminali si riversavano nelle città, poiché i primi prigionieri a essere liberati erano stati borseggiatori e prostitute, assassini, ladri e onanisti. Solo ora, a tre anni dalla morte del tiranno, venivano rilasciati anche gli altri: i detenuti al “cinquantotto“, i controrivoluzionari e i nemici del popolo il cui numero era esorbitante, troppo elevato perché i governanti, con il loro costante terrore del caos, li scarcerassero tutti insieme.
Venivano da Vorkuta, da Pečora e Inta, dalla Kolyma, da Kengir e Perm’. Erano arrivati quell’estate viaggiando in treno verso sud, come tronchi trasportati da un fiume in piena. Intere foreste di persone abbattute, legate e ammassate, e adesso lasciate alla deriva nelle acque impetuose: il taglio invernale, trascinato a riva con rapidità sconvolgente.
La locomotiva più avanti lanciò un fischio. Lo scatto, che annunciò lo scambio dei binari, decretò anche l’ultimo riempimento delle caldaie. Quando echeggiò il secondo fischio, il bambino desiderò non averlo udito, quindi si rimproverò per la viltà di quel desiderio. Per tutta la settimana non era riuscito a immaginarla. Ora, mentre si apprestava a riconoscere la madre tra gli estranei che defluivano dai vagoni, si sentì sommerso dalla disperazione. «Carrozza nove», disse l’uomo, e si lasciò superare dal bambino.
I capelli, appena tagliati, gli cadevano sulla fronte in una frangia che lo faceva apparire più piccolo dei suoi dodici anni. I vestiti, ancorché di seconda mano, erano stirati e inamidati.
Una donna scese dal treno, la bocca paralizzata in un sorriso implorante. Il giubbotto trapuntato verde oliva fece venire in mente al bambino quello indossato dal contadino che consegnava le patate all’orfanotrofio. Il maglione pesante copriva abbondantemente un vestito orlato male. La valigia che la donna posò sul marciapiede era di cartone, con gli spigoli rinforzati di metallo, e così piccola che il bambino immaginò che potesse contenere giusto qualche documento. La luce che le illuminò il viso quando lo riconobbe gli fece salire in gola un conato di vomito.
Era invecchiata, naturalmente, il viso pallido e gonfio. I tratti un tempo marcati erano alterati da un bizzarro taglio corto di capelli, divisi da una parte da due strisce bianche simili alle ali di una colomba. Solo gli occhi, quegli occhi azzurri dalle palpebre pesanti che erano sempre stati il punto focale del suo viso, gli erano familiari in modo inquietante.
L’uomo lo sospinse in avanti.
La donna si accovacciò e richiuse le mani a coppa intorno al viso di Julian. «Fatti guardare, bambino mio dolce e meraviglioso». Il figlio colse il significato delle sue parole all’ultimo momento. La madre gli aveva parlato in inglese, una lingua che il bambino non udiva né proferiva da quasi sette anni. Come per provocarlo, lei gli domandò: «Non mi riconosci?».
«Sì, che ti riconosco, mama!», rispose lui in russo.
«Meno male. Sono diventata una vecchia strega, vero?».
Il bambino non sapeva come rispondere e, con voce carica di ipocrisia, disse: «Lasciami portare la tua valigia, mama!».
Il treno era in partenza. Brandelli di cielo tra i vagoni. Ma che fine avevano fatto i suoi capelli? I lunghi e folti ricci in cui da piccolo affondava il viso, che da anni immaginava nel sonno, tutto ciò che era riuscito a serbare di lei; quella perdita aveva il sapore di un tradimento. Sollevò la valigia mentre la madre si avvicinava a Mark Pavlovič, il direttore dell’orfanotrofio, e gli stringeva l’unica mano tra le sue. La donna lo ringraziò per tutto ciò che aveva fatto per suo figlio in quegli anni. Nel sentirla parlare russo, Julian rimase sbalordito: la sua voce, sorprendentemente chiara e sonora, era guastata da un pesante accento americano.
Come aveva fatto a dimenticarlo?
«Ci dispiacerà molto vederlo andare», disse il direttore. «Julik ci è stato di grande aiuto». Adocchiò brevemente il treno in partenza.
«Vedrà da sola che bravo ragazzo è diventato. Un lavoratore straordinario».
«Ne sono certa», convenne la donna posando una mano sulla spalla di Julian. Sentì il bambino irrigidirsi. Avrebbe dovuto lasciare la scuola, rinunciare ai giochi dietro la stalla delle mucche, dire addio agli amici, a tutta la sua vita. L’idea di dover andare a vivere con quella donna gli mise voglia di piangere di rabbia. Ma il direttore, come se gli avesse letto nel pensiero, aggiunse: «Mi auguro non le dispiaccia se lo terremo ancora un po’…». Era non tanto una domanda quanto la promessa di badare al bambino finché la donna non si fosse rimessa in piedi. Era stato tutto deciso in anticipo. Funzionava così per tutti i figli degli ex prigionieri.
Gli occhi della madre si riempirono di amara gratitudine, ma li tenne fissi su Julian per sincerarsi che lui fosse d’accordo. Il bambino si sentì rimordere dalla colpa. Era chiaro che la donna non avesse i mezzi per portarlo via con sé. Mark Pavlovič le chiese se voleva trattenersi per la notte, ma lei rispose che avrebbe aspettato la coincidenza notturna per Mosca. Lì avrebbe rimesso in ordine la sua vita: avrebbe ottenuto i documenti di reinserimento, avrebbe cercato lavoro e trovato una stanza dove poter vivere con il figlio. «Entro dicembre dovrebbe essere tutto a posto», disse lei con una risata sforzata e leggermente bronchiale. «Festeggeremo il nuovo anno insieme. Non sarà bello?».
Da anni si preparava il discorso da fare alla madre una volta che si fossero ricongiunti («Siedi, mama, riposati, ci penso io a te»). Ora si sentiva come un coscritto scampato alla leva.
«Cosa sono pochi mesi dopo tutto questo tempo?», disse lei. E con quelle parole, la madre – lo spettro della sua esausta immaginazione – rientrò nella sua vita.

Sana Krasikov

Recensione

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