INCIPIT
Il calendario del mio cellulare è pieno di morti.
Quando sento il segnale acustico, pesco il telefonino nella tasca dei miei pantaloni cargo. Con il cambio dell’ora, ho dimenticato di disattivare il promemoria. Sono ancora intontita dal sonno, ma apro la data e leggo i nomi: Iris Vale. Eun Ae Kim. Alan Rosenfeldt. Marlon Jensen.
Chiudo gli occhi e, come ogni giorno a quest’ora, li ricordo.
Iris, minuscola come un uccellino al momento della morte, una volta aveva guidato l’auto in fuga di un rapinatore di banca del quale era innamorata. Eun Ae, che aveva fatto il medico in Corea, ma non poteva esercitare negli Stati Uniti. Alan mi aveva mostrato con fierezza l’urna che aveva acquistato per i propri resti dopo la cremazione, dicendo scherzosamente Non l’ho ancora provata. Marlon aveva cambiato tutti i servizi igienici in casa, sostituito i pavimenti e pulito le grondaie. Aveva comprato i regali di laurea per i suoi due figli e li aveva nascosti. Aveva accompagnato sua figlia di dodici anni nella sala da ballo di un albergo e aveva danzato il valzer con lei, chiedendomi di filmarli con il suo telefono, così il giorno delle nozze ci sarebbe stato un video di quando ballava con suo padre.
Tempo fa, sono stati i miei clienti. Adesso, sono le mie storie da custodire.
Nella mia fila dormono tutti. Ripongo il cellulare in tasca e, con una fluidità da yoga del viaggiatore, oltrepasso cautamente la donna alla mia destra senza disturbarla per raggiungere il bagno in fondo all’aereo. Mi soffio il naso e mi guardo allo specchio. A questa età è sempre una sorpresa: mi aspetto ancora di vedere una donna più giovane invece di quella che ricambia il mio sguardo. Piccole rughe si aprono a ventaglio dagli angoli dei miei occhi, come le pieghe di una carta geografica che conosco a memoria. Se sciogliessi la treccia che ricade sulla mia spalla sinistra, queste terribili luci al neon evidenzierebbero i primi fili grigi tra i miei capelli. Indosso pantaloni ampi con l’elastico in vita, come qualsiasi altra quarantenne di buon senso quando sa di dover affrontare un lungo viaggio in aereo. Prendo una manciata di fazzoletti di carta e apro la porta, con l’intenzione di tornare al mio posto, ma il piccolo spazio cucina è gremito di assistenti di volo assiepate come rughe sulla fronte.
Non appena compaio, smettono di parlare. «Signora», dice una di loro, «può tornare al suo posto, per favore?».
Di colpo mi viene in mente che il loro lavoro non è molto diverso dal mio. Quando sei su un aereo, non ti trovi al punto di partenza, ma neanche a quello di arrivo. Sei sospeso nel mezzo. Un’assistente di volo è la guida che ti aiuta a superare quel passaggio serenamente. È quello che faccio anch’io, come doula di fine vita, ma il viaggio è dalla vita alla morte, e alla fine non si sbarca insieme ad altri duecento viaggiatori. Si va da soli.
Jodi Picoult