INCIPIT
“Easy Rawlins!” sentii chiamare. Mi voltai e vidi Quinten Naylor con la mano sulla maniglia del mio cancelletto. “Eathy”, cinguettò la mia bambina, Edna, che stava giocando con i piedini nel suo lettino accanto a me, tutta placida, nel portico davanti a casa. Quinten era un uomo di statura normale ma di stazza robusta, taurino. Aveva due mani che sembravano pignatte e spalle rotonde come angurie anche quando erano nascoste dalla giacca. Era di pelle bruna ma con una decisa sfumatura rossa sotto. Color incazzato, per dire. Attraversando a grandi passi il praticello spiaccicò un’aiuola di erba cipollina che coltivavo da sette anni. Un omaccione color violenza. Mi scoccò un sorriso. “Meno male che l’ho beccato in casa”, disse.
“A-ha”, replicai, scendendogli incontro. Gli strinsi la mano e lo guardai negli occhi. Visto che non dicevo niente, l’ottimo sergente della polizia di Los Angeles rimase per un attimo interdetto. Mi piantò gli occhi in faccia; aspettava che gli chiedessi cos’era venuto a fare. Ma io volevo soltanto essere lasciato in pace, a casa, con mia moglie e i ragazzi.
“La sua bambina?” chiese. Era dell’Est, ma parlava come un professorino bianco del Nord.
“Seh”.
“Bella bambina”.
“Seh, seh, già”.
“Già”, ripete. “Ha preso tutto dalla madre, scommetto”.
“Cosa vuole da me, agente?” gli chiesi.
“Che venga con me”.
“Sono in arresto?”
“No, nient’affatto, signor Rawlins”.
Non appena mi chiamò “signore” capii che il dipartimento di polizia di Los Angeles aveva ancora una volta bisogno dei miei servigi. Ogni tanto la legge manda uno dei suoi pochi esponenti neri a chiedermi di andare in posti dove loro mai e poi mai potrebbero mettere piede. Quando gli sbirri hanno bisogno della parola d’ordine per intrufolarsi nel ghetto, io valgo come un intero commissariato di detective.
Walter Mosley