INCIPIT
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Da ragazzo mi ero immaginato che le mie valli Dio le avesse fatte con gli avanzi. Con quei rimasugli che gli erano rimasti tra le pieghe delle dita e le crepe delle mani nodose dopo aver modellato le imponenti dorsali occidentali, le morbide praterie assediate dai boschi, le grandi pareti rocciose accecate dal sole che precipitano sui pascoli dritte e compatte, senza sbavature, come guance ben rasate.
Dalle mie parti le montagne sono sbilenche, irregolari, incise da gole frastagliate e profonde. Le piante che germogliano sul fondo incassato o sui fianchi scoscesi crescono sottili e dritte verso l’alto, desiderose di luce, come gli uomini che vivono nelle valli nascoste. Le cime delle montagne, quando non grattano la pancia alle nuvole di passaggio, non sono compatte ma si mostrano come mandibole spalancate verso il cielo da cui spuntano pinnacoli sassosi dalle forme curiose, a volte sembrano denti storti, altre volte nasi bitorzoluti.
Anche le altezze sono vaghe sopra una certa quota, oltre il limite dei pascoli alti. Perché nessuno le ha mai misurate con attenzione, tanto su quelle cime ventose, su quelle creste ossute, non ci saliva mai nessuno, se non i bracconieri, i banditi o qualche caviè alla ricerca di scorciatoie per passare da una valle all’altra.
Dalle mie parti ci sono poche strade, strette e tortuose, torrenti effimeri e sentieri da capre, mal tracciati e incerti, perché spesso si smarriscono tra intrichi di acacie spinose e faggi scheletrici. Del resto Maira, che è il nome della valle principale, nella nostra lingua madre, l’occitano, sta a significare ‘magra’.
Certo, ci sono anche agglomerati di case in pietra scura, e meira o grangia come vengono chiamate le malghe isolate, e chiese dai campanili aguzzi, esposte su enormi massi prominenti per poter essere viste dai fondivalle e ricordare a chi alza lo sguardo che la fede e le altezze non sono facili da conquistare. Le abitazioni stanno in bilico su pendii angusti o appoggiate su minuscole radure che i contadini si sono guadagnati tagliando lembi di bosco ed estirpando ceppi. Nei declivi più dolci pascolano gli animali che, prudentemente, tranne le capre che apprezzano le rocce e il sottobosco, non si allontanano mai troppo dalla loro stalla, e i bambini entrano nelle case altrui – addossate tra di loro per occupare ogni spazio possibile e proteggersi vicendevolmente dal vento invernale – saltando da una finestra all’altra, anziché scendere dalle scale e attraversare i vicoli bui e stretti.
Proprio nel fare anche io questo gioco audace e stupido insieme a una banda di coetanei, mi ero rotto una gamba che non è mai tornata a posto; i rimedi messi in pratica dalla vecchia Amedea, una specie di mite fattucchiera, una masca, alla quale tutti facevano ricorso per medicamenti, incantesimi e baratti, non avevano funzionato tanto bene. Così, da quando avevo sei anni, cammino zoppicando un po’; però quando vado in salita, e devo scartare sassi e radici o evitare le buche, non si vede, e non me ne sono mai preoccupato più di tanto. Anche perché nessuno ha mai avuto niente da commentare. Le montagne, quelle che conosco io, sono piene di persone claudicanti, con gli arti e le teste ferite da incidenti nei boschi o nel tirar su i muri delle stalle e dei fienili. Sono anche tante le persone che marciano storte per le artriti dovute al freddo che non si allontana mai, o semplicemente perché malformate dalla nascita.
Da bambino mi ero sempre chiesto perché gli uomini si ostinassero a vivere in questi posti difficili, e perché, per esempio, non fossero scesi verso la pianura o non avessero fatto come mio padre, che era andato altrove, fino in Spagna, a fare il cavapietre nelle gallerie ferroviarie in costruzione, per permettere ai treni di andare lontano, di raggiungere le città affacciate sull’oceano Atlantico. Ma mio nonno Girolamo, che in famiglia aveva preso il suo posto, mi spiegava che mio padre era cresciuto strano, sempre con la fregola di fare, disfare, andare, anche se non aveva mai avuto necessità di agitarsi così tanto. Ma, continuava il nonno, per molti altri non era una questione di smanie ma di dove cadono i semi, di radici. Gli uomini di montagna sono come le piante, se nasci in un posto, resti lì e ti arrangi con quel poco che trovi, fin quando arriva un vento, un fulmine o un pensiero a strapparti via. O una guerra. Così c’erano anziani che dalle borgate alte non erano mai scesi nemmeno a fondovalle; di Saluzzo e Cuneo avevano solo sentito parlare qualche volta e il loro mondo era tutto compresso tra il prato e l’orto, tra la legnaia e il torrente vicino; se qualcuno di loro stava male si poteva solo sperare in qualche giovane medico disposto a salire lassù; altrimenti si moriva quieti, senza patemi, come facevano gli alberi e gli animali, che si sdraiavano in un angolo e smettevano di respirare senza dare fastidio a nessuno.
Mio nonno mi raccontava questo, però era il primo a volersene andare via ogni volta che poteva. Come poi aveva fatto suo figlio. Per fortuna il nonno stava via per un po’, tre o quattro settimane o al massimo un paio di mesi, e poi tornava sempre. Mio padre, che si chiamava Agostino perché nato in agosto, invece non era tornato più; dopo tre anni che faticava nelle gallerie, era rimasto sotto un cumulo di rocce venute giù all’improvviso da una montagna mentre andava al lavoro, e da lì sotto non l’hanno neanche mai tirato fuori. Tanto non sarebbe valso a niente, nessuno si sarebbe preso la briga di portare le sue ossa in cento pezzi fin qui da noi, dove non c’è spazio neanche per i cimiteri. Mio nonno, quando vennero a casa a dare la notizia, invece che affliggersi, come fanno tutti i vecchi, si era arrabbiato moltissimo con lui, aveva inveito, lo aveva perfino insultato anche se era morto, e aveva mollato dei pugni sul tavolo fino a spaccarlo. Che bisogno c’era di andare a fare il minatore? Non c’erano abbastanza pietre da cavare qui? Non gli bastava quello che già aveva? Il progresso, la ferrovia, l’indipendenza, ecco a cosa avevano portato. Poi si era chiuso in un mutismo rassegnato e della cosa non aveva mai più parlato. Non so se nel tempo avesse dimenticato veramente suo figlio o se l’avesse immaginato comunque chissà dove, in un posto lontano senza ritorno. Da noi chi tira fuori le proprie radici dalla terra e parte è facile che non ritorni, così finisce per stare lontano anche dai pensieri e dalla memoria di chi resta.
Franco Faggiani