INCIPIT
NAPOLI, VIA FORIA, 1900
Si chiamava Elena Saracini Vitiello
Giunse a Napoli che era buio, la pioggia battente risuonava nelle strade vuote mescolata al richiamo lontano degli uccelli notturni. Lei, che avrebbe infiammato i cuori di mezzo mondo, il cui nome sarebbe stato urlato e sussurrato da una miriade di bocche esultanti, a quel tempo era una bambinetta timida che dimostrava meno della sua età, tanto era gracile.
Sua nonna Ermelinda la trascinò su per le scale fino all’ultimo piano di una modesta palazzina in via Foria, dove sua madre Adelaide viveva con il marito Arturo.
Fradicia, entrò in salotto scrollandosi le gocce d’acqua di dosso come fanno i cani infreddoliti, lo sguardo piantato sul pavimento.
«Elena», esclamarono all’unisono.
Immobile, pensava a come avrebbe ricordato quel giorno: il distacco dalla nonna con cui era cresciuta, l’arrivo nella città del sole avvolta dall’oscurità e dalla pioggia, il miraggio di un’istruzione vera in una scuola importante, voluta da Arturo a ogni costo, l’immagine di sua madre infagottata in una stola di pelliccia bianca, così impropria in quel contesto. Per un attimo, temette che nulla sarebbe stato come avrebbe voluto.
Salutò Ermelinda con gli occhi velati di pianto e si rifugiò nella solitudine della sua stanza, che per la prima volta non avrebbe dovuto condividere con nessuno. Si asciugò i capelli ancora umidi e li pettinò raccolti sulla nuca, con la scriminatura netta a dividere le onde. Rimase a fissarsi a lungo nello specchio all’interno delle ante del grande armadio, lo sguardo pensoso e inquieto, il collo eretto, le labbra schiuse. Come assomigliava a sua madre!
Quando spense la lampada a olio e si infilò sotto le coperte sentì che qualcosa di grande era in serbo per lei. Il destino, pensò, non lancia i dadi a caso.
NAPOLI, 1901
Quell’anno accaddero molte cose curiose, tra cui la commercializzazione della macchinetta del caffè
La fila composta raggiunse in silenzio il cortile esposto a ovest sulla Riviera di Chiaia. Le bambine, nei loro grembiulini bianchi, i nastri tra i capelli e i lunghi calzettoni, marciavano a due a due tenendosi per mano. Distinguerle era quasi impossibile. Elena vide sua madre oltre la cancellata con indosso un abito nuovo e discreto, lo sguardo scintillante. Si confondeva tra gli altri genitori, senza sfigurare né eccellere. Per un istante, che avrebbe voluto trattenere per sempre, si sentì come tutte le altre e il cuore le esplose in petto per la gratitudine.
La sezione femminile dell’Istituto Edmondo De Amicis, costruita pochi anni prima nei giardini del conte Emanuele Ferdinando De Grasset, era considerata una delle migliori di Napoli. Si vociferava che pur di far ammettere le proprie figlie le famiglie avessero fatto carte false. A lei, tra quelle mura, mancava l’aria.
Lasciò la mano della compagna e corse incontro a sua madre con un sorriso immenso, il volto paonazzo per l’emozione. All’orizzonte, il mare azzurro si fondeva con la calotta del cielo.
«Fermati!».
Feroce come un latrato, il richiamo la inchiodò. Dal fondo del cortile veniva avanti la maestra, con passo da maresciallo. «Vitiello, sei in punizione! Visto che tua madre è venuta a prenderti, per oggi puoi andare. Ma da domani ti trattieni a scuola».
Adelaide si avvicinò con sguardo implorante, ma la maestra non le diede il tempo di aprire bocca: «Le regole dell’istituto sono inderogabili. E sua figlia è tenuta a rispettarle, come tutte». Elena si impose di non piangere, ma le sue labbra, serrate a forza, tradivano l’umiliazione e la vergogna.
«Sei stata brava», le disse Adelaide, mentre tornavano a casa. Non ne parlarono più ma l’incidente le cambiò l’umore. Nel pomeriggio restò in silenzio in camera sua, fingendo di fare i compiti; e se sua madre cercava di blandirla, continuava a scrivere imperterrita, seduta al piccolo scrittoio di legno.
Flaminia Marinaro