INCIPIT
Mosca si rannicchiava nella gelida e secca sera di marzo per proteggersi dal contatto del sole al tramonto, rosso e freddo. La ragazza salì sull’ultimo vagone, in coda al treno, cercò il suo scompartimento, il numero sei, e tirò un profondo respiro. C’erano quattro cuccette, le due superiori ripiegate contro le pareti, in mezzo un tavolino, sul tavolino una tovaglia bianca, un vaso di plastica e un garofano di carta rosa sbiadita dal tempo; alla testa dei letti una mensola debordante di grossi fagotti legati alla bell’e meglio. Infilò la vecchia valigia di poche pretese, che le aveva regalato Zakhar, nello scomparto di metallo sotto la cuccetta dura e stretta, e gettò lo zaino sopra. Alla prima scampanellata dell’orologio della stazione andò ad affacciarsi al finestrino del corridoio. Aspirò il profumo del treno, ferro, polvere di carbone, l’odore depositato da decine di città e migliaia di persone. I viaggiatori e i loro accompagnatori si facevano largo urtandola con borse e bagagli. La ragazza sfiorò con le dita il vetro freddo del finestrino e guardò il binario. Quel treno l’avrebbe condotta attraverso villaggi abitati da deportati, attraverso città aperte e città chiuse della Siberia, fino alla capitale della Mongolia, Ulan Bator.
Rosa Liksom