L’insegna luminosa CCCP sul tetto di un edificio governativo nella via principale trafiggeva dolorosamente la notte buia. L’uomo e la ragazza camminavano stringendo i denti, stremati e cupi, verso la stazione. Solo sentendo il fischio delle locomotive e scorgendo il deposito dove le vecchie motrici defunte erano immerse nel loro sonno eterno, la ragazza si sentì sollevata. La vista del treno diventato ormai familiare e i musi dei soliti cani randagi spelacchiati grossi come puledri strapparono anche al russo l’abbozzo di un sorriso. Si fermarono sulla banchina ad ascoltare lo sbuffare gioioso della regale locomotiva sui binari. Rientrando nello scompartimento, l’uomo fischiettò e si mise a canticchiare: “O Russia, dimentica la tua gloria passata, i brandelli della tua bandiera … Com’è che faceva più? Boh!” (pag. 97)

Scompartimento N. 6, di Rosa Liksom, Iperborea 2014, traduzione di Delfina Sessa, pagg. 235

Avete mai pensato o sognato  di viaggiare sulla Transiberiana? Se la risposta è sì, allora dovete leggere assolutamente questo libro. In realtà anche se è no, perché poi questo desiderio vi assillerà. E il motivo è che, se è pur vero che i protagonisti del lungo racconto sono il russo Vadim e la ragazza finlandese, la scena è totalmente dominata da un’altra protagonista: la Transiberiana, la lunghissima strada ferrata, e tutto ciò che attraversa. Un viaggio che anche l’autrice, la finlandese Anni Ylävaara, in arte Rosa Liksom, fece nel 1986.

Partiamo dal titolo, che mi aveva subito colpita: è un omaggio a Čechov, che nel 1892 scrisse una novella ambientata nella corsia di un manicomio (“La corsia N.6”). Così come è un omaggio al grande scrittore russo il commiato in explicit: “A Mosca! A Mosca!”

Il racconto prende avvio da Mosca, città che i due protagonisti si lasciano alle spalle – insieme ai loro legami affettivi – salendo sul leggendario treno della Transiberiana diretto a Ulan Bator, in Mongolia. Nello scompartimento numero sei si ritrovano due estranei: una taciturna studentessa finlandese e un sanguigno proletario russo, rozzo e sentimentale, dall’eloquio facile e sboccato, fedele solo alla vodka. Nell’intimità forzata dello scompartimento risuonano le parole di Vadim che come un fiume in piena rompe continuamente gli argini e racconta la sua vita, le sue disgrazie e gli aneddoti salaci, i misfatti e qualche buon gesto.  Della studentessa non sappiamo il nome e non la sentiamo pronunciare parola; ma abbiamo le sue reazioni, a volte sdegnate, altre impaurite, ma altre ancora quasi intenerite dai rari ma sinceri gesti gentili che Vadim le riserva. E soprattutto completamente assorbita dal paesaggio che attraversa e dai suoi pensieri.

Questo – apparente – sbilanciamento all’inizio mi ha spiazzato; andando avanti con la lettura, mi sono resa conto del peso e del significato che riveste nell’economia e nel senso del racconto. Vadim è l’umanità russa, immersa in una organizzazione sociale priva di umanità, indifferente, indottrinata, schiacciata da una tirannide morale, che nega ogni valore al singolo individuo. Allora non importa poi più di tanto di quali misfatti si sia macchiato Vadim: qui, nel racconto, ciò che conta è la sua vitalità, nonostante tutto, anzi a dispetto di tutto – del suo passato, del suo essere misogino, antisemita e violento -, la sua resistenza è quella di un popolo che vive in una società sull’orlo del baratro, ma che lotta per resistere. Una società che si lascia alle spalle un passato spaventoso, e che ha davanti a sé lo scricchiolio di un castello che sta per crollare.

Vadim percepisce il fallimento del sogno sovietico, lo ha toccato con mano; anche se confonde certi fatti, o nomi, sente che la grande madre Russia lo ha deluso, tradito e, cosa ancora peggiore, sta mostrando i segni del crollo. La studentessa ha un carattere introverso; è salita sul treno per realizzare un sogno che nutriva da tempo, ma che avrebbe dovuto compiere con il suo fidanzato. Il suo Mitka è uno studente che si è finto pazzo per non combattere in Afghanistan ma che poi è impazzito davvero nel manicomio in cui l’hanno rinchiuso.  Mentre viaggia nello scompartimento, è spesso assalita dai ricordi che diventano così un flash back distribuito lungo tutto il racconto; c’è molta nostalgia nel suo rivivere i momenti felici e un senso di perdita, per una felicità che sembrava a poratta di mano e che forse è sfuggita per sempre.

siberia norilsk

Come dicevo sopra, il vero protagonista del racconto è la Russia Siberiana, le sconfinate regioni che il treno attraversa, sferragliando nella taiga innevata, attraversando città e villaggi nati attorno a una miniera o ad un pozzo per l’estrazione petrolifera, spazzati dal vento gelido e accomunati dal degrado, dall’inquinamento, dalla miseria e dalla fame; un mosaico di lingue e di popoli che vivono in una regione vasta quanto un continente, dove tutto è estremo, dove tutto urla dolore. Le città costruite per confinare deportati, o per isolare scienziati; le città per produrre e lavorare a testa bassa; le città dove ci sono tante persone ma è assente l’umanità; e, su tutto, la natura, indifferente agli artifici dell’uomo, una natura indomita, estrema nella sua panica immensità.

Le descrizioni dei luoghi e delle loro atmosfere sono magistrali; si percepisce perfettamente che sono frutto di un’esperienza diretta, perché i particolari appaiono così vividi e autentici; l’autrice ha un dono incredibile nel riuscire a rendere a parole aspetti così intangibili come un vortice di neve che corre sulla pianura, o il colore in continuo cambiamento di un’alba ghiacciata.

In Scompartimento N.6 abbondano anche i riferimenti letterari e musicali. Dicevo del titolo e dell’explicit (tratto da Tre sorelle) che si rifanno a Čechov, ma non solo.La narrazione è suddivisa in capitoli che seguono il ritmo dell’avanzare del treno e delle soste che effettua in alcune delle città attraversate. Negli scompartimenti viene diffusa la musica: da Debussy a Beethoven, da Šostakovič a Čajkovskij, una colonna sonora ideale per il viaggio, e che, come il samovar in cui sempre bolle l’acqua e la corpulenta capo-carrozza, sono tipicamente russi.

Il vento gelido che spazzava la pianura si faceva vorticoso e disperdeva sopra la città il fumo nero esalato dalle ciminiere delle fabbriche. Le rotaie si scomponevano in sempre più diramazioni. Il convoglio sussultava mollemente sugli scambi, le congiunzioni scricchiolavano, tutto strideva. Infine ci fu una lunga frenata tranquilla. Il treno era a Krasnojarsk, città chiusa, il fulcro dell’industria bellica sovietica. Cominciò a nevicare fitto. Le donne con stivali di feltro grigi che pulivano le rotaie si fermarono a guardare il treno che arrivava da lontano, da Mosca. Nel corridoio risuonò la voce di Arisa: “A questa stazione non si scende!” (Pag. 114)

Qui potete leggere l’incipit.

Rosa Liksom, nata a Ylävaara nel 1958, è una delle più famose scrittrici e artiste finlandesi, tradotta in 17 paesi. Apprezzata fin dagli esordi da critica e pubblico, ha debuttato nel 1985 con una raccolta di racconti ottenendo il premio J.H. Erkko. Dopo gli studi di antropologia a Helsinki e a Copenaghen, si è dedicata alle scienze sociali all’Università di Mosca, e da quel momento il mondo russo è entrato a far parte dei suoi romanzi, come Stazione spaziale Gagarin (1987) e Go Mosca Go (1988). Con Scompartimento n.6  ha vinto il Premio Finlandia 2011, il più prestigioso riconoscimento letterario finlandese, ed è candidata al Premio del Consiglio Nordico 2013 e al Prix Médicis 2013.