A scuola abbiamo imparato a conoscere, chi più chi meno, il poema epico di Omero: l’opera simbolo della Grecia antica, scritta attorno al 730 a.C.

Il racconto di Omero rende immortale la guerra tra i due eserciti, troiano e greco (gli invasori achei), che si contendono la bella Elena, moglie di Menelao, fuggita con Paride, erede della dinastia che regna a Troia. La guerra – che dura ormai da dieci anni, in un continuo e logorante assedio, che porterà poi alla definitiva sconfitta di Troia – prende a pretesto la vicenda dei due amanti, ma in realtà è una lotta di potere ed espansione, della coalizione greca guidata da Agamennone, re di Micene, contro la città da espugnare.

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Spesso le scene di battaglia, i racconti degli scontri cruenti sono stati esaltati e a chi non conosce a fondo il poema può apparire come una glorificazione della guerra.

In realtà le parole che Omero usa per descrivere lo scenario bellico sono “dolorosa, raccapricciante, miserabile”: il suo intento, pur nell’esaltare il coraggio e le virtù degli eroi di entrambi gli schieramenti, è quello di promuovere una riflessione sul destino tragico che accomuna tutti, vinti e vincitori. La distruzione, la violenza, le uccisioni sono quanto di più ripugnante l’uomo possa macchiarsi, e nemmeno la vittoria può portare consolazione per i lutti e le tante vite sacrificate per un’assurda ricerca di supremazia.

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La critica all’assurda testardaggine nel volere continuare il conflitto passa attraverso le parole di Achille, il maggior guerriero acheo: il suo duro discorso è volto contro la guerra e il suo stesso comandante, accusato di avidità. Omero ci dice che tutti i guerrieri achei la pensano come Achille e molti di loro vorrebbero fuggire dal campo di battaglia. Sull’altro fronte, lo stesso Paride, che fino a quel momento appariva come una figura opaca, arriva al punto di proporre una soluzione che ponga fine alla decennale guerra: sfiderà a singolar tenzone Menelao e la vittoria sul campo di duello sancirà la fine del conflitto. La sua proposta è accolta con grande entusiasmo dagli eserciti di entrambi le parti, sfiniti e decimati dalla guerra e dalle condizioni di vita ad essa legate, così come dalle popolazioni, in particolare dalle donne che, come in ogni tempo, sanno di essere considerate bottino di guerra.

Omero dà corpo a questi sentimenti con grande partecipazione, rendendo evidente quanto la guerra sia odiata da tutti e come ognuno aneli alla sua fine, al ritorno alla pace. Sono pagine di alta drammaticità, da cui emerge la certezza che la guerra sia la disgrazia suprema.

Mi azzardo a dire che forse in un’epoca come la nostra, apparentemente “pacificata”, gli scenari di guerra che insanguinano molti territori, che producono morti e distruzione, che spingono milioni persone a fuggire in cerca di una speranza di vita in pace, non sono poi diversi dalla guerra di cui Omero con tanta partecipazione racconta. In questo senso, trovo il valore di continuare a leggere i classici, di ascoltare i messaggi che da un tempo assai remoto ma in modo del tutto attuale, dovrebbero spingerci a riflettere perché nonostante tutti i progressi scientifici e culturali, il nostro mondo, ancora oggi, è retto dalle logiche di potere e di sopraffazione.

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